PARIGI 1985 (Per vedere il testo arricchito dalle splendide foto di Akio, come quella qui sotto, vai a https://sergiocalamandrei.wordpress.com/?s=Parigi )
Sarà
conformismo, sarà mancanza di immaginazione ma io ho sempre voluto visitare
Parigi. Finalmente,
in un agosto denso di nubi e di turisti, ho potuto soddisfare il mio desiderio e
saziarmi di questa città. Per
un mese ho freneticamente macinato chilometri di marciapiede e di metrò, ho
atteso nelle lunghe code dei musei e in quelle ben più prosaiche ma non meno
importanti dei fornai e dei supermarket, ho visitato chiese e negozi senza
riuscire a capire quali dei due fossero oggetto di maggiore venerazione. Soprattutto
ho imparato ad orientarmi, a girare senza mappa e senza problemi, a sentirmi un
po' di casa. Ora,
prima che il ricordo si attenui, prima che tutto vada perduto nel flusso opaco
della memoria, desidero riportare una specie di diario di questo mio viaggio. Ma
le note che seguono non saranno una mera elencazione di fatti, anzi, prescindono
dai fatti stessi. Una volta ebbi, forse un po' drasticamente, a scrivere:
"La
vita è una successione di stati d'animo e di pensieri. I
fatti non contano. Vacui
di significato, occasionali, episodici sono
solo pretesti per creare stati d'animo e pensieri." In
ossequio a questa mia visione della vita, dunque, il mio diario non può che
essere un diario sentimentale, che tratta di impressioni e moti del cuore.
Se le pagine di questo libro ammettono qualche verso felice, voglia perdonarmi il lettore la sgarberia di averlo usurpato io, anticipatamente. Le nostre quisquilie differiscono poco; ordinaria e fortuita è la circostanza che tu sia il lettore di questi esercizi, e che io ne sia l'estensore." J. L. Borges Nelle
tenebre sfrecciano le luci delle case. Niente
è più relativo del movimento di un treno. Un'aria
fresca e lucida di mattino ci accoglie a Parigi. Su
di noi incombe pacata la Gare de Lyon, indifferente ormai, dopo tanti anni, agli
stupori di chi arriva e ai saluti di chi parte. L'insindacabile
destino ferroviario, operando nella notte con scambi e locomotrici, ha decretato
che il nostro vagone si fermi quasi alla periferia estrema della pensilina. Meccanicamente,
affannosamente scendiamo; nessuna frase storica segna i nostri primi passi in
questa mitica città. Tutto appare così irreale, contingente, un tenue
proseguimento del dormiveglia in cuccetta. In
effetti mi ci vorranno alcuni giorni per rendermi conto che sono a Parigi. Per
ora invece corricchio lungo il binario per accaparrarmi uno dei carrelli per il
trasporto delle valigie di cui mi han detto son piene le stazioni francesi. Disgraziatamente,
essendo questi carrelli tanto comodi, per quanto ci si sforzi in ricerche e
pedinamenti non se ne trova uno libero. Ritornando
senza preda al mio binario dove gli altri mi stanno aspettando mi sento
particolarmente avvilito. Trasportare i bagagli a mano, oltre ad essere ben più
faticoso, mi pare una cosa così poco francese, quasi banale. La
metropolitana. Prima
che ne parli è bene precisare che io adesso la odio. Mi
ricordo i primi giorni; divertiti cercavamo le direzioni, quasi una caccia al
tesoro. Contavamo le fermate fatte e quelle che mancavano, ci si dilettava sulle
cartine a cercare gli itinerari più veloci, si ammiravano le stazioni; alcune,
splendide espressioni di architettura moderna. Poi,
col passare dei giorni, come in tutte le cose, l'abitudine soffocò l'entusiasmo
ed iniziò l'insofferenza per il tempo speso in quei sotterranei; facemmo
indigestione di scale mobili e cancelletti metallici. A
mente fredda resta un certo senso di disagio che permea questo sibilante mezzo
di trasporto. Le luci artificiali, le pareti incombenti sulle carrozze, ricreano
quasi quella penosa condizione che è propria degli ascensori: siamo qui,
momentaneamente insieme, ora come ora interessi comuni e contingenti ci uniscono
ma una volta arrivati alla stazione le nostre strade si divideranno, dunque
perché perdere tempo a salutare il mio vicino. Però
un po' di rimorso per le occasioni di incontro perdute rimane e queste persone
che ti siedono davanti non puoi stare certo a fissarle, allora, non siamo in
tram, maledizione, e non si può guardare fuori, tocca abbassare gli occhi o
fare lo sguardo vacuo, perso nel nulla, tipico dell'alienazione moderna. Oppure,
se in compagnia, si chiacchiera vigorosamente e questo è ancora più offensivo
per gli altri che sono a un metro e per te è come se non esistessero. La
metropolitana, se uno si lascia prendere da questi pensieri, diventa una specie
di castigo o pedaggio da subire ogni volta che occorre spostarsi; soprattutto,
poi, la sera quando si ha una rarefazione dei passeggeri e sorge una malcelata
tensione con tutti che si spiano di soppiatto sorvegliando in particolare gli
elementi meno raccomandabili ed ognuno cerca di farsi notare il meno possibile,
si fa piccino e guarda il buio che scorre oltre i vetri. La
metropolitana è molto comoda, pensavo tornando in Italia, ma sono contento che
nella mia città non esista. Più di centoventi corse in un mese giustificano
ampiamente questo mio stato d'animo.
Le
strade di Parigi, come quelle di Londra, rilucono di insegne voluminose e
sgargianti; la loro rigorosa geometria pare esagerata ai nostri occhi latini
abituati a ben più pacati annunci. Le
strade del nostro quartiere parigino abbondano poi, inspiegabilmente, di
farmacie mentre latitano senza scampo i cestini dei rifiuti. Noi, nel tentativo
improbo di non apparire i soliti italiani dispensatori di cartacce, giriamo per
isolati infastiditi ed oppressi dai nostri rifiuti di così difficile
collocazione. Di
fronte a Notre-Dame lentamente si diradano rabbia e malumore. Questa
magnifica chiesa, non riuscirò mai a capire come questo insieme disarmonico e
massiccio possa risultare così bello, ha il magico potere di dispensare serenità. Resto
a contemplarla assorto, quasi senza pensare. Nella
notte il suo volto chiaro risalta contro il cielo; se si alza appena lo sguardo,
prescindendo dai pochi turisti, si può provare per qualche istante la
sensazione intensa di essere tornati in epoca medievale. Probabilmente sono i
ventotto re di Israele che dall'alto della facciata ci guardano severamente. "Parigi
è una città bellissima e fredda, di
preziose fontane e
calcolati monumenti. Fatta
per esser bella inganna
gli occhi ma non il cuore."
Ammirando
i quadri del Louvre spesso capita di dimenticarsi del Louvre stesso. Per
fortuna talvolta, incastrata tra due opere, mi rapisce una finestra con scorci
magnifici sull'immenso cortile. Esamino
con più attenzione le sale, astraendomi da dipinti e turisti. E' difficile
immaginare che degli uomini abbiano vissuto in queste stanze rarefatte, in
questi corridoi senza fine; siamo troppo distanti dal concetto di abitazione. Ma
il Louvre non era una dimora; era una reggia, anzi, l'incarnazione massima del
concetto di "grandeur", di vastità, di imponenza che permea tutta
Parigi. In effetti ogni monumento, ogni parco parigino è fatto per destare
questa impressione di magnificenza e sovrabbondanza. Oserei
dire che Parigi è una città per certi versi esagerata. E' una città
coreografica fatta forse più per essere ammirata che vissuta; basti pensare
alle mille fontane ed ai suoi giardini perfetti ma incalpestabili. E' una città
alla quale la storia, attraverso secoli di sovrani potenti e orgogliosi, ha dato
una impronta unitaria e precisa come di raro capita osservare. Ancora
oggi Parigi è il simbolo della Francia e come tale viene mantenuta curatissima
ed impeccabile, senza crepe nei muri, senza sporco per terra, senza aiuole
devastate. Così,
a testa alta, Parigi si sottopone all'implacabile flusso di turisti e ne esce
vincitrice. E tutto ciò ci turba leggermente, perché gli italiani temono
l'orgoglio, ma non può che essere ammirato ed apprezzato. Un
po' invidiosi, un po' sarcastici, a chi ci chiede rispondiamo che Parigi è
troppo bella per essere vera. Il
Louvre in meno di due ore distrugge i suoi visitatori; s'incrociano negli
interminabili corridoi automi dal passo stanco e dallo sguardo spento. L'abbondanza
di capolavori genera indifferenza; ne fanno le spese soprattutto gli autori
minori, si cammina svogliati, si cercano i divani. Triste rivelazione è passare
di fronte ad uno specchio: talvolta, sconvolti, non ci si riconosce neppure. La
Gioconda è un quadro immenso che palpita delle tue stesse emozioni: se sei
triste Monna Lisa condivide il tuo cruccio, se sei contento si allarga il suo
sorriso e sempre, in ogni caso, siete soli tu e lei perché ovunque i suoi occhi
ti seguono e si fissano nei tuoi. Come non si può amare un quadro che vive,
anche se solo di luce riflessa? Siamo
stati, come d'obbligo vista l'eccezionalità dell'esposizione, a visitare la
grande mostra degli impressionisti tenuta nel grazioso museo Jeu de Paume.
Un'amica, esperta di storia dell'arte, ci spiegava con ardore quello che
osservavamo raddoppiando in tutti noi interesse e piacere. Fu
lì che compresi, mai troppo tardi, come sia importante avere una buona guida
che oltre che "vedere", faccia "capire" le cose. Pur
nella nostra modesta cultura artistica azzardammo pareri e giudizi e nacquero
discussioni ed addirittura fazioni. Io,
che amo i paesaggi, presi ad adorare Monet e tra i minori gradii Sisley e
Pizzarro. Il
fatto che apprezzassi solo in parte Renoir e per niente Cézanne, Manet,
Toulouse Lautrec e Van Gogh fu considerato da taluni provocatorio e forse in
parte lo era: spesso accade, infatti, nelle discussioni, di radicalizzare le
proprie tesi per il solo gusto di contrariare gli altri. Comunque,
a parte questi divertimenti retorici e sofistici, l'importante è ricordarsi
sempre che al di là delle preferenze, che in quanto tali sono soggettive ed
arbitrarie, quel che conta è osservare e confrontare, esaminare tutto con
attenzione ed umiltà, vedere se in qualche modo riusciamo ad ampliarci ed
arricchirci. Ma questo naturalmente vale in ogni cosa, non solo per le mostre. Peccato che tutto ciò non sia semplice da ricordarsi; così spesso mi accorgo che, senza volere, umilmente pontifico. Colonnine,
statue, altorilievi e guglie adornano Notre-Dame. Vi
si legge dietro il lavoro oscuro di centinaia di artigiani ognuno dei quali ha
contribuito individualmente, con genio o con semplice manualità, a questa
secolare opera. E'
la somma di molteplici e variati sforzi come questi che ci ha regalato i talora
asimmetrici capolavori medievali. Ora
non esiste più niente di simile; le costruzioni moderne sono monumenti immensi
a gloria del loro unico artefice: l'architetto.
Sono
stato alla Defense, il quartiere moderno. Lì tutti i migliori architetti hanno
realizzato ognuno il suo grattacielo. Tutti questi grandissimi palazzi sono
coordinati in un vasto complesso interdetto alle macchine e decorato da giardini
e fontane. La
Defense è molto bella, è la migliore espressione complessa di architettura
moderna che io sinora abbia visto ma è una bellezza geometrica e razionale,
liscia di specchi e acciai, vi regna un'armonica simmetria di squadre e compassi
che non dispiace, che rallegra ma che non può commuovere perché manca di
pathos, di drammaticità. Un
grattacielo nasce dallo sforzo di una azienda, non dal contributo totale di una
città e nasce in cinque anni, senza coinvolgere i decenni e i secoli. Ma
soprattutto, come ho già detto, geometria e simmetria ben poco concedono
all'apporto dei singoli. Unico resta l'architetto; per gli altri rimane la
consueta alienazione della produzione industriale di massa. L'atmosfera
è quasi asettica, con una scrivania, due comode poltrone, il telefono a portata
di mano, il blocco per prendere appunti, i grandi vetri dai quali noi ci
affacciamo perplessi. L'unica
nota stonata in quello che potrebbe sembrare un normalissimo ufficio è
rappresentata da un classico confessionale messo in un angolo, certo riservato
ai più timidi o ai conservatori ad ogni costo. Ci
troviamo all'interno di una delle navate di Notre-Dame. Poco più in là un
vasto bancone illuminato che vende ricordi e santini contribuisce ancora di più
a sminuire quel poco di sacralità che la magnifica cattedrale riesce a malapena
a salvare dall'assedio implacabile di torme di turisti frettolosi e
fotografanti. Di
fronte al metodo moderno di confessarsi provo una certa irritazione. E non è un
cieco attaccarsi alla tradizione, non è un richiamarsi alla italica e dunque
cattolica cultura; è una specie di fatto estetico, è il fastidio quasi fisico
che provo quando la conversazione dei due oltre il vetro è interrotta dal
telefono e il prete inizia a parlare e sorride e prende nota, certo ha fissato
un appuntamento. Non
possono gestirmi con fare così manageriale, tecnico, privo di sentimento, di
sofferenza e di mistero quella fede di così difficile conservazione che purtroppo io un giorno, forse proprio per questo, persi. Attoniti,
lasciamo Notre-Dame. Più tardi, tra i marmi severi della deserta Madeleine,
nelle sue luci fioche, ritrovo finalmente la solenne distinzione tra il sacro e
il profano e, con discrezione, ne gioisco. La
notte la piazza dell'Hotel de Ville risplende con i suoi lampioni severi e le
sue fontanelle discrete. Ancora
una volta l'illuminazione gioca un ruolo importante nel creare bellezza. Curioso
è l'effetto della bianca facciata che pare crearsi un varco nei tetti neri: il
palazzo assume una dimensione irreale; sembra quasi un modellino da quanto è
preciso e ben tenuto. La
piazza, poi, vede accresciuto il suo fascino dal fatto di essere relativamente
poco frequentata. Anche
qui, ascoltando il suono delle cascatelle, potrei stare seduto per ore. Tour
de Montparnasse: cinquantanove piani che si affacciano sulla Senna. Dalla grande
terrazza l'orizzonte circolare sembra quasi falso, un insieme di cartoline
panoramiche attaccate una all'altra. La
visione collettiva di tutti i monumenti di questa città mi dà finalmente, dopo
dieci giorni, la consapevolezza piena di essere a Parigi. Alcune
vetrate conservate nella deliziosa chiesa di St. Etienne du Mont e le cortesi
spiegazioni di un gentile prete mi portano ancora una volta a considerare quale
funzione avesse il simbolismo per le genti medievali. Ogni
elemento di quelle composizioni ha un significato allegorico o dottrinale che
ora mi viene svelato dal mio coltissimo accompagnatore ma che certo doveva
apparire chiaro ed evidente a buona parte degli antichi parrocchiani. Sgomento,
mi immagino la vita dei più istruiti di quegli uomini, dai discorsi
continuamente avvolti in metafore e riferimenti religiosi. Ma,
a ben pensarci, ogni epoca vive immersa nei suoi simboli e la cultura stessa non
è altro che l'insieme di queste idee comuni, e dunque rassicuranti, delle quali
noi ci serviamo per facilitare le nostre comunicazioni. Logico dunque che in
quell'epoca priva di scuola e di mass media ci si appoggiasse all'unico
patrimonio culturale universale; quello della Chiesa. Comunque
è difficile immaginarsi di vivere in un mondo nel quale ogni cosa ed ogni fatto
era così direttamente riferibile a Dio o al Diavolo, al bene o al male. L'uomo
medievale era un pratico immerso in un universo trascendente. Attraverso
la Senna sul ponte d'Iena e vedo la Torre Eiffel ingrandirsi sempre di più,
passo dopo passo. La
prima impressione è che sia immensa: foto, cartoline, film non le rendono
giustizia; è molto più grande di
quanto si possa immaginare e poi, cosa che mi colpisce perché, chissà come
mai, la credevo nera e scura, è grigiastra, quasi chiara. Sono gli antiruggine,
mi dicono. Nessuna
cosa nasce per caso: questa torre sorse in occasione della esposizione
universale del 1899 e veniva a simboleggiare la fiducia dell'uomo nella tecnica
e la sua capacità di dominare l'acciaio e la gravità. Potremmo
anche ritenere questa opera insensata e inutile, una sfida che l'uomo moderno e
meccanico ha lanciato alla natura e in effetti in un racconto di Buzzati
intitolato, appunto, "La Torre Eiffel" essa è stata immaginata come
una novella torre di Babele per erigere la quale degli uomini hanno
dinamicamente (unica differenza con lo statico Drogo della Fortezza Bastiani) ed
inutilmente dedicato tutta la loro vita. Il
narratore di questa breve storia è un valente operaio meccanico che un giorno
viene ingaggiato dall'ingegnere Eiffel per collaborare alla costruzione della
gigantesca struttura. Condizione
indispensabile per essere assunto è il mantenere un misterioso segreto che solo
in seguito gli sarà svelato. L'opera
inizia e rapidamente procede. Folle
di parigini osservano giorno e notte i meccanici volteggiare alti sulla
incredibile intelaiatura. Una mattina però gli operai si accorgono che una
nebbia artificiale, approntata con la scusa di impedire loro di cadere vittime
di vertigine, viene a nasconderli dagli occhi dei curiosi. Il
lavoro prosegue; dopo due anni si giunge infine a quota trecento metri, quella
stabilita dal progetto ufficiale. L'ingegnere convoca i suoi uomini, li
ringrazia del loro impegno e chiede che qualcuno resti volontario per portare
avanti la parte segreta della torre. Il
nostro resta e continua a lavorare insieme a tanti altri e la costruzione
prosegue sempre più in alto, protetta dalla nebbia artificiale. Per guadagnare
tempo si costruiscono delle case per operai sospese sulle intelaiature, così da
essere subito al cantiere. L'entusiasmo
permea tutti i partecipanti all'impresa: "fu in quel periodo che si cominciò
lentamente ad intuire la meravigliosa verità, il motivo cioè del segreto. E
non ci sentivamo più operai meccanici, noi eravamo i pionieri, gli esploratori,
eravamo gli eroi, i santi. Si cominciò ad intuire che la costruzione della
Torre Eiffel non sarebbe terminata mai, ora si capiva perché l'ingegnere avesse
voluto quel sesquipedale piedistallo, quelle quattro ciclopiche zampe di ferro
che sembravano assolutamente esagerate. La costruzione non sarebbe finita mai e
per la perpetuità dei tempi la Torre Eiffel avrebbe continuato a crescere in
direzione del cielo, sopravanzando le nubi, le tempeste, i picchi del
Gaurisangar. Fin che Dio ci avesse dato forza, noi avremmo continuato a
bullonare le travi d'acciaio una sopra l'altra, sempre più in su, e dopo di noi
avrebbero continuato i nostri figli, e nessuno della piatta città di Parigi
avrebbe saputo, lo squallido mondo non avrebbe capito mai." Ma
il sogno presto svanisce: un traditore rompe il segreto, il governo invia la
gendarmeria che fa sgombrare la torre. E' la fine: "disfecero il poema da
noi elevato al cielo, amputarono la guglia a trecento metri d'altezza, ci
piantarono sopra il cappelluccio che ancora adesso vedete, miserabile. La nube
che ci nascondeva non esiste più, per questa nube anzi faranno un processo alle
Assise della Senna. L'aborto di torre è stato tutto verniciato di grigio, e
pendono lunghe bandiere che sventolano al sole, oggi è il giorno
dell'inaugurazione. Arriva
il presidente in tuba e redingote tirato dalla quadriglia imperiale. Come
baionette balzano alla luce gli squilli della fanfara. Le tribune d'onore
fioriscono di dame stupende. Il Presidente passa in rivista il picchetto dei
corrazzieri. Girano i venditori di distintivi e coccarde. Sole, sorrisi,
benessere, solennità. Al di qua del recinto, smarriti nella folla dei poveri
diavoli, noi vecchi stanchi operai della Torre ci guardiamo l'un l'altro, rivoli
di lacrime giù per le barbe grigie. Ah, giovinezza!" Mi
chiedono cosa mi ha colpito del Louvre. La
Gioconda, rispondo subito, e poi il Louvre stesso con quei suoi corridoi senza
orizzonte, con le opere di tantissimi buoni pittori che si annullano nella massa
e vengono annichilite ulteriormente dall'improbo confronto con decine di
capolavori, poi il bar sulla terrazza del museo che inaspettato mi concesse un
po' di aria e di calorie evitandomi un clamoroso tracollo. Ma
l'amico, esperto d'arte, insiste per avere i miei giudizi sulle opere esposte.
Io, che conscio della mia pregevole ignoranza avevo cercato di evitare una
simile specificazione, azzardo con molta umiltà una serie di personalissime
impressioni. Innanzitutto
mi ha colpito l'attualità della bellezza delle donne del Botticelli che non ha
pari tra i pittori della sua epoca ed anche di tante epoche successive,
affollate sempre di paffute matrone. Poi
ho scoperto che i Fiamminghi, che credevo di gradire, in realtà mi piacciono
molto meno di quanto mi aspettassi; di loro salvo solo i ritratti di tavolate di
popolani, che sembrano quasi caricature ma che esprimono pienamente la
straordinaria vitalità di quel popolo di infaticabili mercanti
che nel diciassettesimo secolo si sparsero per il globo tanto da farli
definire il quinto elemento del mondo dopo aria, terra, acqua e fuoco. Infine
sono stato colpito dall'arte spagnola: fredda, statica, profondamente religiosa.
E' l'immagine fedele di quel paese e della sua storia soffocata. Il
Louvre, concludo, è un grandissimo museo perché riunendo tutte le scuole e
tutte le epoche permette e stimola
una infinità di confronti e paragoni. L'amico
sorride e mi domanda da quanto tempo io non vada a "stimolarmi" agli
Uffizi, altro immane museo a venti minuti da casa mia. Confuso
e vergognoso conto gli anni e mi chiedo se mai riuscirò ad applicare alla mia
città la sensibilità e la curiosità che sto dedicando a Parigi. Il fatto è
che io ci vivo e niente si nota meno di quello che si ha sotto gli occhi. Qui
invece trascorro le mie giornate in assoluta contemplazione, senza altro
problema che quello di raccogliere più immagini e sensazioni possibile. Se
uno riuscisse sempre a distaccarsi un po' dalla realtà contingente, dalla
routine di tutti i giorni, il mondo apparirebbe molto più ricco e la felicità,
forse, meno lontana. I
mille temi di verde che si affacciano sui laghi, le barchette splendide e
placide, le anatre che galleggiano in instabili gruppi, gli alberi adagiati
sulle acque; tutto ciò concorre a
rendere ameno e sereno il Bois de Boulogne. Questa
pace che rasserena gli occhi e il cuore a prima vista parrebbe imputabile solo
alla intrinseca bellezza della natura. Invece, con lieve smarrimento, mi rendo
conto che ancora una volta dietro a tutta questa armonia si nasconde la mano
dell'uomo; i prati ridenti, gli alberi potati, i cespugli ricomposti tradiscono
il lavoro di molteplici, invisibili giardinieri. Con
italica invidia non posso fare a
meno di notare ovunque la capacità
dei francesi di amare e di valorizzare quel che di bello li circonda. La
cosa che più mi cruccia dopo un mese passato in questa splendida città è
ch'io l'ho solo vista, sia pure da capo ai piedi, e non l'ho vissuta. Ho
ammirato Parigi, le sue costruzioni, i suoi parchi, i musei, i negozi come un
qualsiasi turista, voyeur frettoloso, che si ciba di immagini e cerca di
immortalarle in improbabili fotografie, che dice "che bello!" e
sbalordisce nei luoghi previsti, concepiti ed adibiti a tal scopo. Questa città
io non sono riuscito a penetrarla; percepisco in lei una grandezza immensa della
quale mi sono state concesse solo le briciole attraverso i simulacri esteriori
dei monumenti. Viverci
a Parigi, forse, conoscerne gli abitanti, ma quelli veri, che portano in loro lo
spirito, la cultura e la storia di questa metropoli; questo si potrebbe fare e
tanti, nei secoli, lo hanno fatto. Ma
è una impresa ardita e probabilmente inutile. Dopoditutto ci si può
accontentare degli indizi e dei simboli che ci vengono offerti; essi da soli
bastano a colpire un animo, a far riflettere e, cosa sempre più importante e
rara, ad emozionare. Notte
chiara di luna; passeggiamo arditi sul lungosenna, sotto il Quai de Montebello.
Imponente, sull'altra riva, incombe la complessa e nervosa fiancata di
Notre-Dame. La
semioscurità di questi luoghi evoca ombre di coppie romantiche ma anche di
loschi figuri e barboni. Per fortuna una coppia di gendarmi ci tranquillizza e
ci permette di osservare con calma i murales multicolori che ignoti artisti
hanno dipinto sulle sponde del fiume. Tuttavia
in questo contesto la cosa che più ci attira è l'insolita visione di
Notre-Dame che qui dal basso ci viene proposta. Con ardore mi vengono spiegati i
mille contrafforti che sorreggono la fiancata, i rosoni nella loro estetica e
nella loro funzionalità, le due grandi torri rimaste fortunatamente incompiute,
ché se fossero state completate avrebbero distrutto la miracolosa armonia della
facciata. Mi
raccontano inoltre come nel 1793 i francesi furono lì lì per smontarsi questa
mirabile chiesa, un po' come abbiamo fatto noi con il Colosseo, e mi rendo conto
che i parigini conservano i loro tre più caratteristici monumenti quasi per
caso perché nel 1750 si pensò seriamente di demolire il Louvre, mentre la
Torre Eiffel era originariamente destinata ad essere smantellata, gigantesco
meccano, una volta finita l'esposizione universale del 1899. Vengo
sottratto a queste mie considerazioni dalle smaglianti e prosaiche luci di un
bateau-mouche che, falsamente allegro, ci sfila davanti. Il
bateau-mouche vorrebbe riprodurre il romanticismo che ha sempre permeato il
viaggiare sull'acqua, elemento fluido, gioioso e cangiante, quasi ludico ed
invece fallisce disperatamente in quello stiparsi di turisti, nella corsa al
posto e al biglietto, negli altoparlanti sfasati ed inintelleggibili che con
cupa ostinazione ripetono in quattro lingue elencazioni banali di monumenti che
invece scorrono tanto belli, illuminati come sono e stagliati contro il cielo
nero. L'unica è sottrarsi alla ressa e alle voci metalliche alzandosi in piedi
e portandosi a prua elidendo in tal modo la percezione stessa del bateau-mouche.
Solo così, immaginandosi sospeso su una piattaforma indeterminata, si può
giungere a vedere Parigi come se fosse astratta dal tempo ed ammirarne alcuni
suoi tratti di bellezza assoluta. Rompono
questo incanto altri turisti che salutano e gridano dai ponti. Vorresti
buttare a mare chi gli risponde. Mostra
di Renoir, ennesima abbuffata di tele e pennelli. In
mezzo a questa folla che impersonale gremisce le sale mi viene da chiedermi
perché i quadri difficilmente mi commuovono più di tanto, a prescindere dagli
stili e dagli autori. Come
in tutte le cose la motivazione estrema può essere ricondotta alla filosofia
sulla quale consciamente od inconsciamente uno imposta la sua vita. Da qualche
tempo, e con sempre maggiore convinzione, io ritengo che la felicità sia
intuire l'armonia che si nasconde dietro al mondo e entrarne, per qualche
istante pregno di gratitudine e di orgoglio, a far parte e dunque pratico una
visione estetica della vita continuamente tesa a scorgere e scoprire i sottili legami che nascono, naturali o artificiali, tra
forme, colori, parole, linee e suoni. Per
difetti di sensibilità o cultura questa mia ricerca di armonia mi risulta
semplicissima nell'esame della natura che ci circonda e senz'altro agevole nel
campo delle lettere e della musica e in taluni casi anche nell'architettura,
tutte cose che riescono facilissimamente a produrre in me emozioni e sentimenti,
mentre invece pittura e scultura ben più di rado riescono a smuovere il mio
cuore, condizione indispensabile perché io mi senta vivo. Forse
è per questo che tra gli impressionisti ammiro tantissimo i paesaggi intensi di
Monet, Sisley e Pizzarro. In quei quadri la pittura riesce a trasmetterci la
dolcezza e la serenità della natura. Tutte
le cose belle finiscono. anzi, c'è un detto che afferma che le cose belle sono
solo quelle finite, in quanto godono della dote della compiutezza e, aggiungo
io, non soffrono più dell'affanno del contingente: l'uomo, perpetuamente
impegnato nello scopo illusorio di migliorare, spesso tralascia di assaporare. Ma
tutte queste riflessioni più o meno filosofiche non mi consolano affatto mentre
qui, seduto nel mio vagone, attendo paziente di tornare in Italia. Una
sottile nostalgia di Firenze attenua il mio dispiacere. Guardo fuori dal
finestrino e ripenso a questi trenta giorni: non potevo augurarmene di migliori
e di più importanti. E'
tempo di bilanci ed il mio bilancio sono queste note, è tempo di ricordi ed i
miei sono felici, è tempo di partire e la locomotrice, lenta ma implacabile, ci
trascina lontano. I
treni si rincorrono tra loro senza una motivazione apparente. I paesaggi che ci
offrono sono fuggenti ma veraci. I paesi attraversati si manifestano nei loro
aspetti più crudi ed essenziali: fabbriche minime o immani, campi di
perpendicolari geometrie, caserme immense di popolani, relitti malinconici di
case. Ogni tanto una mucca saluta. per tornare a Saggi e riflessioni e RECENSIONI ANOMALE
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