La vigilia di Natale
Parisi e la Vigilia
22 dicembre 1995
Carboni si affacciò sulla soglia della mia stanza.
Mise su uno strano sorriso prima di parlare.
– Cosa fa per Natale, Capo?
Lo scrutai incupito.
– Come mai questa domanda?
Lui, con un paio di passi imbarazzati, entrò.
– Norma mi ha detto che lei spesso è da solo e perciò, visto che non ha molti parenti o amici, potrebbe essere il caso di…
– Ha detto così, Norma? Che non ho molti…
– In verità, ha detto che lei è sempre solo come un cane.
Pensai che avrei dovuto parlare con la mia segretaria.
– Io non sono solo come un cane. Io basto a me stesso.
– Vabbè… Comunque, se vuole bastare a se stesso in compagnia, potrebbe venire a casa mia per il pranzo di Natale. A mamma farebbe piacere.
Rimasi qualche istante in silenzio. Mi schiarii due o tre volte la voce prima di rispondere.
– Carboni, ringrazio lei e sua madre per questo invito. Norma la ringrazierò poi moltissimo per come parla di me. Ma… – ebbi un attimo di esitazione, il mio cervello stava viaggiando alla velocità della luce per trovare una via d’uscita. Quindi mi venne un lampo di genio. – …Ma ho deciso di dedicare questi quattro giorni, da sabato a Santo Stefano, a una full immersion di lavoro sul mio giallo. Mi metterò lì al computer dal mattino alla sera e non farò altro.
Come avevo fatto a non pensarci prima! Questa storia di Sonia mi stava proprio sconvolgendo; io avevo un romanzo da terminare e rivedere!
Sorrisi. Tra quello, un po’ di palestra e due o tre appuntamenti con A.A.A. novità olandese avevo di che sfangare le feste.
Dopo che il mio collaboratore ebbe richiuso la porta, rimasi solo nella stanza e serrai le palpebre per diversi secondi.
Ripensavo all’immagine che la mia segretaria aveva di me, solo come un cane, e mi incazzavo sempre di più.
Come si era permessa di dire una cosa così! Per di più, vera!
Mi alzai e andai nel corridoio. Scrutai nella stanza che Carboni condivideva con la mia dipendente e osservai desolato la postazione di lei: vuota, come al solito. Esaminai la scrivania e vidi che in cima all’unica pila di pratiche c’era un libro. Era il Trattato delle barzellette di Achille Campanile. Fandomo!
– Ma Norma dov’è? – chiesi brusco al mio assistente. – È la segretaria più latitante del mondo, non c’è mai!
Carboni rimase in silenzio. Rispose, invece, una voce dietro di me.
– Cosa vuole, Arturi? È sempre lì che si lamenta!
Tacqui e trattenni il respiro.
Una trentacinquenne con i capelli biondi e mossi e un bel viso tondeggiante, che però in quel momento non sorrideva affatto, era apparsa nell’ingresso.
Carica di sacchetti pieni di regali di Natale.
– Che c’è da guardarmi così, dottore? – continuò. – Sono stata alla Posta.
Feci una smorfia e me ne tornai verso la mia stanza.
Poi ebbi una reazione d’orgoglio e mi voltai.
Lei era sempre ferma nell’ingresso che mi fissava.
Tirai due o tre respiri profondi e dissi, con tono glaciale: – Norma, se non lavora di più, sarò costretto a prendere un’altra segretaria.
– Oh!, dottore – rispose lei, annuendo – un’aiutante mi farebbe proprio comodo!
Senza pronunciare una parola, Domenico Arturi rientrò nella sua stanza scotendo la testa.
Solo allora Norma si tolse il giaccone e sistemò le borse degli acquisti sotto la scrivania.
Carboni se la rideva sotto i baffi e la salutò con un cenno della mano.
La donna gli chiese: – Me le hai fatte quelle fotocopie, Marco? E hai ordinato il toner?
Era la prima volta, quella, e fino ad allora non era andata male.
Francesca era stata a mangiare a casa di Parisi in varie occasioni, ma questa era la prima festa comandata che lei passava insieme ai genitori di Renzo. L’apparecchiatura perfetta e curatissima, i pacchetti con i regali che la ragazza aveva portato e quello che la madre di Parisi le aveva dato in cambio, le luci intermittenti dell’albero di Natale, l’aperitivo prima della cena, i vestiti eleganti, tutto, insomma, contribuiva a dare una certa aria di ufficialità alla serata.
Renzo si sorprese a osservare con ammirazione Francesca che conversava cortese e rispettosa con i suoi genitori e sentì crescere in sé la soddisfazione. La madre e il padre gli stavano lasciando trasparire approvazione per la donna che lui aveva condotto in quella casa. Una volta aveva letto che, in fondo, tutto ciò che facciamo è finalizzato a far vedere ai nostri genitori quanto siamo bravi. E in quell’istante i suoi gli stavano dicendo che aveva scelto bene la compagna. Renzo si gustò il momentaneo appagamento del suo bisogno di consenso e lo celebrò sorseggiando lento un calice di buon vino rosso, di quello che il padre teneva in serbo per le grandi occasioni.
– Allora, Francesca, tu collabori anche col Movimento per la Vita? – stava chiedendo la madre di Parisi.
La ragazza sorrise.
– E cosa fate lì? – domandò il padre.
– Il primo Centro di aiuto alla vita è nato proprio qui a Firenze nel 1975. Aiutiamo le donne in difficoltà, soprattutto quelle incinte. Cerchiamo di evitare che decidano di abortire per mancanza di denaro o per paura dei problemi che dopo dovrebbero affrontare.
– Gli date dei soldi?
– Sì, tra le varie forme di assistenza c’è un progetto proprio per l’adozione temporanea a distanza di madri in difficoltà. Ne ospitiamo anche alcune, soprattutto le straniere. Circa la metà delle donne che vengono da noi non sono italiane… Mandiamo poi alle famiglie bisognose le carrozzine, i vestitini e le altre cose usate che ci vengono regalate.
– Mi pare una bella cosa – disse la signora Parisi.
– Sì – fece Francesca, sorridendo. – Ogni aborto che evitiamo è una gioia enorme.
– Ma che brava questa ragazza, Renzo! – esclamò la madre. Era una donna alta, dal quieto sorriso. Ora si era parecchio appesantita ma si vedeva che da giovane era stata bella, anche se certo non al livello della sorella minore Sonia.
– Pure Fra’ ha i suoi difetti – rispose Parisi. – Ora la vedete tutta dolce e buona, ma voi non sapete che pazienza ci vuole a sopportarla.
La mamma si volse seria verso il figlio ma Francesca rise e, dopo un istante, tutti sorrisero. Comunque, la madre volle commentare: – È proprio una figliola da sposare, questa. Tu non la meriti proprio, Renzo.
Francesca abbassò il capo e non disse nulla.
L’avvocato fece una smorfia. Poi chiese: – Potremmo mangiare il dolce? Tra poco dobbiamo andare alla messa di mezzanotte.
Il padre si alzò veloce e andò ad armeggiare in cucina. La moglie si alzò anche lei per cambiare i piatti e la ragazza volle a tutti i costi aiutarla. Renzo rimase solo seduto a tavola. Si massaggiò la fronte e bevve un altro bicchiere di vino.
Finito di mangiare un ottimo millefoglie, quando mancava solo un quarto d’ora all’inizio della messa, i due giovani si misero i cappotti, salutarono i genitori di Parisi ed entrarono nell’ascensore. Francesca aveva un bel sorriso e gli occhi luminosi. Renzo cercò di indovinarne il motivo: magari era felice per come era andata la serata o forse già pregustava l’incontro con quel Dio in cui credeva tanto.
Io non sono così fortunato, pensò l’uomo. Da bambino era stato molto religioso, ma dopo aveva iniziato a non capire bene il motivo per cui alcune cose non si potessero fare. Non comprendeva, ad esempio, perché masturbarsi fosse un peccato. Tutto sommato, farlo non creava danno a nessuno, eccettuato a sé stessi se fossero state vere certe improbabili dicerie sul diventare ciechi.
Nell’adolescenza aveva cominciato, quindi, ad avere dei dubbi su alcuni dettagli della religione cristiana. Poi, un sabato pomeriggio in cui aveva rinunciato ad andare a una festa per partecipare a un ritiro, mentre stavano pregando in gruppo, aveva scorto il sacerdote che durante il Padre Nostro aveva dato un’occhiata all’orologio, per vedere se era tardi. Questo gesto, così terreno, piazzato da un ministro di Dio nel bel mezzo di un momento altamente religioso lo aveva turbato nel profondo. Iniziò, allora, a convincersi che occorreva distinguere tra il nucleo profondo della religiosità e quelle che invece erano le sue sovrastrutture, formatesi per stratificazioni nei secoli in maniera talvolta opinabile per opera di uomini spesso fallibili. Arrivato ai vent’anni aveva perdonato quel povero sacerdote ed era giunto alla conclusione che un Dio c’era e che valeva la pena di comportarsi in modo giusto. Però cosa fosse giusto lo avrebbe deciso lui perché le diverse religioni erano solo degli strumenti convenzionali per ricordarsi che qualcosa sopra di noi esiste e una religione valeva l’altra. Dopo essere giunto a queste conclusioni, Renzo aveva continuato per anni a ripetere le sue preghiere prima di addormentarsi, ma le considerava ormai un mantra, un modo per ricordarsi ogni sera che non doveva assolutamente fare del male agli altri; questo era diventato l’unico vero peccato della sua personale religione. E continuava ad andare alla messa a Natale e a Pasqua, ogni volta curioso di vedere se avrebbe provato qualcosa.
Anche quella sera, quindi, non gli pesò recarsi alla messa. Anzi, voleva proprio sapere che effetto gli avrebbe fatto assistere alla funzione in compagnia della sua donna e se la religiosità di lei lo avrebbe coinvolto in qualche modo.
Dunque, quando andarono a piedi verso la chiesa, col passo veloce per difendersi dal gelo, Renzo mise una mano sulla spalla di Francesca e si sentì quasi contento.
Brano tratto da Indietro non si può di Sergio Calamandrei