Piazza del Mercato Vecchio a Firenze
A Firenze, la piazza del Mercato Vecchio venne distrutta, insieme al Ghetto e a molte vie e piazze del centro, nei lavori di riqualificazione che iniziarono nel 1888 e durarono una decina di anni. In questo articolo vorrei dare un’idea di come fosse la piazza del Mercato Vecchio, aiutandomi con molte vecchie foto e con alcuni brani tratti dal mio racconto Sabatino e la catastrofe del risanamento, pubblicato in Passata è la tempesta. Dell’alluvione, e di altre calamità. Il racconto fa parte di una serie, dedicata a Firenze Capitale del Regno d’Italia (1865-1871). Ho parlato della distruzione del centro medievale di Firenze anche in televisione, in questo video.
La distruzione della piazza del Mercato Vecchio, che sorgeva dove ora si trova la ben più grande piazza della Repubblica, avvenne nell’ambito di una gigantesca operazione immobiliare (coinvolse 70.000 metri quadri del centro storico, dal quale furono sfollati quasi 6.000 abitanti) che, con la nostra attuale sensibilità, non possiamo che considerare come una delle maggiori catastrofi urbanistiche mai avvenute, tra quelle non dovute a eventi bellici o a calamità naturali. Scomparve, infatti, tutto il centro medievale della città.
La piazza prima del 1881
Fino al 1881 la superficie della piazza era occupata da una serie di strutture e baracche, che, da provvisorie, si erano, col tempo, trasformate in definitive, donando al luogo un aspetto un aspetto vivace e squallido allo stesso tempo.
Una guida turistica del tempo si esprimeva così:
“Abbiamo già detto come negozi di commestibili si trovino naturalmente in ogni parte della città. Ma ciò non impedisce che sianvi anche due grandi mercati, cioè il Mercato Vecchio, nel centro della città, nelle vicinanze della Piazza della Signoria e del Duomo… e il Mercato San Pietro, detto anche il Mercatino, poco discosto da Santa Croce, dal Teatro Pagliano e dalla Via Pinti… . In entrambi questi mercati, ma in maggior copia nel primo, si trovano raccolte tutte le derrate imaginabili, tanto comuni che prelibate, tanto nostrali che forestiere, ortaggi, pollame, salumi, carni. selvaggina ecc., ecc.
Così fossero puliti, come son ben provvisti. Ma ahime! La madre di famiglia, buona massaia, la quale amasse fare da sè le proprie provvigioni, bisognerà che si rassegni a camminare nella pozzanghera e nella melma fino al maleolo – per lo meno.
D’altra parte, poi, se torna assai comodo l’avere questi due mercati nel centro della città, non torna certamente decoroso ad una metropoli. Dicesi che il Municipio pensi a trasferire in altro quartiere e meno angusto e più vicino alla periferia il Mercato Vecchio; ma è un progetto, e di progetti ne concepiscono tanti e di sì belli i Municipi, e con sì meravigliosa facilità!…” La Nuova Capitale – Guida Pratica Popolare di Firenze – ad uso specialmente degli Impiegati, Negozianti, delle Madri di famiglia, e di tutti coloro i quali stanno per trasferirvisi – colla pianta della città – indicante la località dei Ministeri, Pubblici Uffici, Stabilimenti, ecc. – Torino, 1865 – Tipografia Letteraria, pag. 29
Scrive Attilio Brilli in Il viaggio della capitale, Torino, Firenze e Roma dopo l’Unità d’Italia: “Specie per il forestiero, il Mercato Vecchio è caratterizzato da un gusto pittoresco talmente intenso e pervasivo all’olfatto, che anche a distanza di tempo tende a ricomporsi nella memoria per frammenti sensoriali, come si legge in una bella pagina di William Dean Howells: «quando ci ripenso (al Mercato Vecchio) s’apre sopra di me il cielo pallido e delicato di una bella giornata invernale, e mi ritrovo in mezzo alla vecchia piazza con la loggia del pesce in sfacelo, da un lato, e dall’altro i tetti sfalsati con coppi marroni e i muschi che prosperano tutto l’anno. Ho di fronte un grande, bianco, decrepito casamento che leva i suoi sette piani verso il sole, incredibilmente sconquassato dal primo all’ultimo piano, e pure bello, con i poveri stracci stesi da una finestra all’altra, come se avesse voluto nascondere il suo stato d’abbandono. Attorno a me contadini, carretti e gente di ogni età ed ogni genere. Mi sento gli orecchi assordati dal frastuono della folla e il naso invaso dall’odore di innumerevoli, immemorabili giorni di mercato e dal sentore rancido e nauseabondo di pesce fritto e di dolciumi proveniente da una serie di forni nelle vicinanze. E sono felice, più felice di quanto lo sarei se mi ci trovassi effettivamente»”. Howells, A Florentine Mosaic, in Id., Tuscan cities, Ticknor e Co., Boston, 1886, p. 70. Sempre in Brilli, a pag. 25 si trovano altre interessanti descrizioni del Mercato Vecchio e dei suoi penetranti odori “che sarebbero stati capaci di rovesciare lo stomaco di un granatiere” e si segnala che nel 1867 C.R. Weld diffidava i visitatori deboli di stomaco da sostare nelle stradine attorno al Mercato Vecchio le cui botteghe sono «una vergogna per la capitale d’Italia».
La piazza dopo la demolizione delle baracche
Dopo il 1881, la piazza venne sgomberata da tutte le baracche che la ricoprivano. Dal 1° novembre 1881, infatti, le botteghe del vecchio mercato vennero obbligate a spostarsi in quello, nuovissimo, di San Lorenzo, un tripudio di ferro, ghisa e vetro, come richiedeva la modernità.
Nel mio racconto, illustro come appariva in quel periodo la piazza.
“La piazza del Mercato Vecchio, adesso che erano state abbattute tutte le baracche e le casupole che erano sorte al suo interno nel corso dei secoli, aveva riacquistato respiro. Gli edifici medievali che la contornavano erano fatiscenti e diroccati, ma il peso degli anni conferiva loro una solennità che intimidiva.
La Loggia del Pesce, del Vasari, abbelliva il lato della piazza che dava in direzione di Palazzo Strozzi; quella e la Colonna dell’Abbondanza, sarebbero stati gli unici manufatti di quel luogo che si sarebbero salvati, anche se a costo di essere smontati e trasferiti altrove.
Sul lato dalla parte di via dei Calzaiuoli, la piccola chiesa di San Tommaso in Foro e le antiche botteghe dei Borromei erano destinate a sparire.
Sul fronte verso l’Arno, la catastrofe del risanamento avrebbe abbattuto il tabernacolo di Santa Maria della Tromba e l’imponente Torre dei Caponsacchi, svettante sulle case che l’affiancavano.
Infine, il quarto lato della piazza era delimitato dal massiccio fronte del ghetto, indubbiamente poco elegante e un po’ opprimente, con i suoi edifici alti fino a sette piani. Le tante finestre del ghetto, solitamente popolate di persone affacciate, adesso erano deserte. L’intero isolato, ormai svuotato di vita, pareva aver perso ogni energia e in procinto di crollare su se stesso, da un momento all’altro.”
La distruzione della piazza
L’incipit del mio racconto
“25 febbraio 1894, in Firenze, zona del Mercato Vecchio
– È una catastrofe, Arturi! Una catastrofe!
Il vecchio scuoteva la testa, lacrime silenziose solcavano le sue guance.
– Peggio, molto peggio delle alluvioni del 1844 e del 1864 – aggiunse. – E stavolta non è la natura a distruggere Firenze, siamo noi!
Non sapevo che dire per consolarlo.
In quel momento, preceduta dall’urlo di un muratore, cadde dal quarto piano una parete dell’appartamento posto sopra quello abitato da Guido Panerai, fino a poco tempo prima. Le altre case medievali che sorgevano sul lato opposto della strada erano già state abbattute. Ci eravamo inerpicati sulle loro rovine e potevamo assistere a distanza di sicurezza alla distruzione dello stabile dove il settantenne era nato, e, prima di lui, suo padre. I detriti piombarono al suolo, generando una nuvola immane, che ci raggiunse, costringendoci a coprire la bocca coi fazzoletti.
Accanto a noi c’era Elena che, con gli occhi sbarrati, fissava, come incantata, il veloce lavoro degli operai. Aveva sei o sette anni meno di me, che andavo per i cinquantadue, ma lei, che era stata sempre così bella, ora pareva superami molto in età, come se tutta la sua vita di stenti le fosse improvvisamente piombata addosso.
– Andiamo, rimanere qui è una sofferenza inutile – dissi, mettendo una mano sulla spalla del vecchio.
– Siamo noi! Siamo noi! – continuava a ripetere.
Feci per portarlo via. Porsi l’altra mano anche a Elena, ma lei scosse il capo.
– Ora sono arrivati al nostro appartamento – disse. – Devo vederlo!
Trascinai Panerai sino a quella che in precedenza era stata Piazza del Mercato Vecchio ed era adesso divenuta la piazza nuova del centro, intitolata a Vittorio Emanuele II, la cui statua equestre torreggiava su un panorama incongruo, formato da vecchi edifici medievali superstiti, da fondamenta di case e torri abbattute, da cumuli di materiali di risulta, dal cantiere per la costruzione del gigantesco arcone che avrebbe sovrastato Via degli Strozzi, da nuovi palazzi, già costruiti e funzionanti, tra i quali, quello dove la sera si folleggiava al Caffè Chantant Trianon, inaugurato nel 1891.
A camminare in mezzo a quello strazio mi sanguinava il cuore; 70.000 metri quadri della vecchia Firenze medievale sventrati: si stavano perdendo 26 antiche strade, 20 piazze, 3 giardini, 18 vicoli e chiassi; svanivano 341 immobili abitativi, 451 botteghe, 173 magazzini, 5 corti; sfollate e disperse per la città 1.778 famiglie, 5.822 persone; dei 1.091 proprietari costretti a vendere o espropriati, soltanto 6 sarebbero stati ancora tra i possessori delle sole 63 proprietà risultanti dopo la gigantesca spoliazione: occorreva disporre di enormi capitali, infatti, per poter partecipare alle aste dei grandi lotti messi all’incanto e ricostruire interi palazzi.
Giungemmo in piazza del Duomo, dove spiccava il cantiere del palazzo dell’Arcivescovado. Lo stavano demolendo, per poi ricostruirlo arretrato di una ventina di metri, al fine di creare spazio attorno al Battistero e permettere l’allineamento tra il fabbricato e la larga via nuova che portava nell’ancora incompleta Piazza Vittorio Emanuele II.
– Tutta la nostra storia: perduta! – continuò, disperato, il mio amico. – Il cuore antico della nostra città, cancellato per far posto agli anonimi palazzi dei capitalisti. Il popolo, scacciato e messo in mezzo a una strada. Tutti i miei compagni, dispersi.
E mi tornò in mente il giorno, una vita fa, in cui avevo incontrato per la prima volta, lui e i suoi compagni.”
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