Madame Bovary e l’alienazione
(breve riassunto e commento della Madame Bovary di Flaubert)
Ormai pensavo che non sarei mai riuscito a terminare quel libro.
Un tempo vivevo come una specie di sconfitta l’abbandono della lettura di un romanzo. Mi sentivo in colpa perché, evidentemente, o mi ero sbagliato nello scegliere il libro al quale dedicare la mia attenzione, o non riuscivo a comprendere cosa l’autore volesse comunicarmi. Poi ho letto i dieci diritti del lettore di Pennac e, avendo tra essi trovato il diritto di saltare le pagine noiose e quello di non finire un libro che non interessa, mi sono molto tranquillizzato.
Era quindi con pacata rassegnazione che mi stavo accingendo ad eliminare “Madame Bovary” dal gruppo dei libri da leggere o in corso di lettura ed a riporlo nella mia libreria.
Avevo, infatti, constatato che erano parecchi mesi che mi ero arrestato alla pagina 50; trovavo sempre qualche pretesto per anteporre altre letture a questa.
Ero stato spinto verso il libro di Flaubert dal fatto che esso veniva spesso citato come il primo romanzo moderno e dal mio desiderio di ridurre un po’ la mia quasi totale ignoranza degli scrittori non contemporanei. La storia però non mi aveva coinvolto; la trovavo molto datata e lontana dal nostro mondo. Avevo anche da ridire sullo stile estremamente descrittivo, che attribuivo agli usi dell’epoca. Ho letto, poi, che questa esasperata attenzione per i particolari e gli ambienti venne contestata a Flaubert anche da alcuni suoi contemporanei e, d’altronde, mi vengono in mente diversi autori moderni che mi hanno infastidito allo stesso modo. Rimediavo, per quanto possibile, applicando la regola di Pennac; saltavo, quindi, le parti che più mi annoiavano.
Ero, dunque, deciso ad abbandonare questo romanzo, quando, nell’estate del 1999, ho avuto modo di leggere un paio di saggi sulla scrittura e nuovamente, in entrambi, si citava “Madame Bovary” come un capolavoro. Decisi allora, per una specie di questione di principio, che avrei letto tutto il libro. Volevo scoprire cosa, di tanto prezioso, si celasse tra queste pagine o verificare, in alternativa, sino a che punto potesse giungere la mia insensibilità letteraria. Desideravo, inoltre, comprendere esattamente cosa si intendesse per “bovarismo”; termine col quale pensavo si indicasse una certa attitudine a scambiare la vita con la letteratura o viceversa.
Ho terminato il romanzo da pochi giorni. Esso narra la storia di Emma, maritata nella prima parte dell’800 al giovane dottore Carlo Bovary. Il medico esercita in piccoli paesini della provincia francese e la coppia conduce una vita non agiata, ma dignitosa. Dopo qualche tempo nasce loro una figlia. Il problema di Emma è che ella, in breve, si disamora del marito che scopre essere un brav’uomo ma ordinario e mediocre, privo di ambizioni e di ogni slancio romantico. Soprattutto risulta per lei essere odioso il fatto che egli l’ami senza riserve e sia assolutamente felice del loro matrimonio e della vita che essi conducono. Emma, invece, aspira a quelle passioni accese e a quella vita signorile che vengono descritte nei romanzi e nei “giornali di moda”. Esistevano, infatti, già allora, delle riviste che narravano gli eventi mondani della nobiltà parigina la quale svolgeva nell’immaginario del tempo le funzioni dell’attuale mondo del cinema e della televisione. La Signora Bovary, in breve, non si accontenta più della sua esistenza tranquilla e spera ogni giorno che un qualche evento fortunato le permetta di entrare in quel mondo “romantico” che un destino avverso pare aver negato a lei, una così sensibile creatura. In particolar modo, Emma si augura di potersi trovare un amante, come tutte le signore del bel mondo, sul quale poter riversare la sua capacità di amare. Essendo Emma una bella donna, sia pur se superficiale e, in definitiva, mediocre, ella riesce ad avere come amanti, prima un esperto nobiluomo e poi un giovane praticante notaio. Per seguire queste sue storie amorose la donna trascura la figlia e la gestione della casa. In particolar modo, ella, per noncuranza o per ansia di condurre uno stile di vita all’altezza dei modelli parigini, giunge ad indebitare in maniera irreparabile sé e il marito con conseguente completa loro rovina e tragico epilogo della storia.
Non pretendo che questo mio breve riassunto possa comprendere tutti gli elementi della “Madame Bovary”. Esso riporta solo quelli che mi hanno maggiormente impressionato ed, inoltre, è volutamente parziale per non togliere a chi non l’avesse finora fatto il piacere di leggere il romanzo di Flaubert.
La storia, comunque, è più o meno questa.
Una volta terminata la lettura mi sono reso conto che il libro mi aveva colpito. Riesco a distinguere con una certa facilità le storie che mi entrano dentro da quelle che scivolano via senza lasciare traccia. Nel primo caso, infatti, mi ritrovo a compatire i personaggi come se fossero miei familiari dal tragico destino e mi viene da pensare con rimpianto a come sarebbero potute andar meglio le cose se essi avessero fatto nei momenti critici delle scelte differenti.
Mentre mi stavo dolendo della sorte dei coniugi Bovary e, in particolar modo, di quella della loro incolpevole figlia, ho iniziato a chiedermi per quale motivo quel romanzo, scritto in uno stile a me così spiacevole, mi avesse tanto impressionato.
In un primo momento esclusi di essermi identificato con Emma. La trovavo un personaggio odioso che trascura la figlia e rovina il marito, che confonde gli aspetti puramente esteriori ed estetici della passione, quali il piangere e il continuo ripetersi promesse d’amore, con la vera sostanza del sentimento che può ben esprimersi, e di solito dopo i primi tempi lo fa, in maniera più pacata e tranquilla, nella ordinaria vita di ogni giorno.
Una volta esclusa la moglie non mi restava, però, che identificarmi nel marito. Carlo Bovary è un poveruomo, privo di virtù ma tenace, che fa tutto quello che è necessario per perseguire quella che lui crede essere la felicità della famiglia. Fino a questo punto il processo di identificazione, per certi versi, poteva anche andare, ma Flaubert esaspera questi aspetti di Carlo fino a renderlo una specie di caricatura del “becco felice” nella quale nessun uomo dotato di un minimo di orgoglio può giungere ad identificarsi.
Tornai, quindi, giocoforza, a riflettere sul personaggio di Emma per cercare di capire in cosa io e lei potessimo essere simili. Qualche tempo dopo me ne resi conto.
Come molti di noi, Emma Bovary è una persona che vive una vita a lei “aliena”. La sua esistenza di ogni giorno le appare come estranea; ella non la sente come propria. Madame Bovary in ogni momento della sua vita coniugale desidera essere altrove, immersa in una esistenza più romantica, ove le preoccupazioni materiali non abbiano alcuna rilevanza. Ella non riesce ad apprezzare i motivi di felicità, che pure sussisterebbero, della esistenza che effettivamente conduce ma li svilisce paragonandoli con irraggiungibili e sempre nuovi desideri.
In definitiva, Emma desidera più di quello che ha; e non tanto da un punto di vista quantitativo ma, soprattutto, qualitativo.
L’eroina di Flaubert porta all’esasperazione queste caratteristiche; ella si ammala di malinconia fino a quando non riesce a trovarsi effettivamente un amante e poi, una volta entrata in questa sua nuova esistenza trascura quella sua quotidiana, sino a essere rovinata da uno strozzino. Ma, a parte questi eccessi, siamo sicuri che questa dicotomia tra vita reale e vita ideale non appartenga alla maggior parte di noi? Non dico che ognuno di noi desideri avere un amante, ma non è forse vero che talvolta ci viene da pensare che saremmo più felici se avessimo un lavoro migliore o meglio organizzato, se la cura dei nostri figli ci richiedesse meno impegno, se potessimo avere più tempo da dedicare ai nostri interessi? Non ci viene talvolta il dubbio di sprecare o inaridire nelle occupazioni quotidiane un qualche nostro talento, o che una parte importante di noi resti inespressa?
Di solito di fronte a questi pensieri ci consoliamo pensando che si tratta di una fase temporanea della nostra vita; tra pochi anni avremo progredito nel nostro lavoro e potremo trarne maggior tempo libero e migliori guadagni, i nostri figli saranno cresciuti e ci impegneranno di meno, potremo finalmente ritagliarci il tempo per scrivere, suonare, leggere o uscire. Lo pensiamo e, inconsciamente, sappiamo già che stiamo ingannandoci. In realtà non esiste alcun motivo per cui tra qualche tempo la situazione possa essere significativamente migliore.
L’esistenza di uno sfasamento tra quello che siamo e quello che vorremmo essere è un problema fondamentale, la cui soluzione non può venir affidata passivamente al trascorrere degli anni, sperando che la casualità della nostra vita ci porti, prima o poi, a riconciliarci con i nostri desideri. Occorre, invece, affrontare il problema con lucidità e forza di volontà.
Pur sapendo che certe cose è più semplice teorizzarle che metterle in pratica, non posso fare a meno di concludere che, come sempre accade, la soluzione risieda in un compromesso. Dobbiamo far confluire la nostra vita reale con quella ideale, modificandole e modellandole entrambe.
Dopo aver preso coscienza della nostra attuale ed effettiva esistenza e delle sue realistiche prospettive, occorre chiarire a noi stessi quelli che sono i nostri reali desideri e bisogni. Questa prima fase di analisi può richiedere molto tempo perché non è facile riuscire a vedere con distacco la propria vita e, soprattutto, è difficile orientarsi nella nuvola di falsi desideri e di bisogni indotti che ogni giorno, sempre di più, si avvolge intorno a noi.
Una volta individuati i punti in cui l’ideale non coincide con la nostra realtà occorrerà, in qualche caso, fare uno sforzo di volontà per indirizzare la nostra vita verso quelle mete che vorremmo raggiungere; in altri casi occorrerà rassegnarsi a non vedere esauditi i nostri desideri e farsene una ragione.
Potrei, ad esempio, constatare che desidero scrivere un romanzo e aspiro a diventare un attore famoso. Per come è messa attualmente la mia situazione, posso facilmente concludere che è bene che mi metta il cuore in pace sulla mia carriera cinematografica mentre posso invece fare qualcosa riguardo all’altra mia aspirazione. Se veramente voglio scrivere, se non si tratta di una pura velleità, posso decidere di dedicare a questa attività qualche ora attualmente destinata al lavoro, al sonno o alla famiglia.
Tutti questi discorsi sono riassunti in un pensiero che mi è capitato più volte di leggere. Lo ritenevo giusto ed interessante. Riflettendoci adesso, lo trovo fondamentale. La preghiera in questione dice più o meno quanto segue:
“Dio, fammi accettare serenamente
le cose che non è in mio potere modificare.
Dammi il coraggio di modificare quelle che posso
e la saggezza di distinguere le une dalle altre.”
Come si può intuire, una delle due grandi difficoltà che occorre affrontare nell’attuare questo modo di affrontare la vita è quella data dalla difficoltà di distinguere i desideri irrealizzabili da quelli realizzabili. Una persona non deve rinunciare a tutte le sue aspirazioni semplicemente perché non sono immediatamente e facilmente raggiungibili. Se così fosse, verrebbe a cessare quella spinta che ci porta ad evolverci ed a progredire, sia come singoli che come collettività. D’altro canto, uno non può cercare di realizzare tutti i suoi desideri. Occorre trovare il “giusto mezzo” in modo da dare alla propria vita una certa tensione; renderla non troppo floscia, né troppo stressante; cosa facile ad enunciarsi ma difficile da attuare.
La seconda grande difficoltà è quella che quando uno conclude che deve accettare di rinunciare a soddisfare qualche sua aspirazione, non è facile che si rassegni a ciò. In effetti, può darsi che quelli che vogliamo non siano dei semplici desideri ma dei veri e propri bisogni. Ovvero mancanze di qualcosa che ci è necessaria.
Non è facile parlare di queste cose; non è facile giungere a delle conclusioni. In realtà, stiamo riflettendo su uno degli aspetti più importanti della vita umana. La discrepanza tra quello che siamo e quello che desideriamo, la dicotomia tra reale ed ideale, è quella tensione che ci permette di affrontare ogni giorno della nostra esistenza.
Mi scuso formalmente con Gustave Flaubert. Madame Bovary, che affronta una degenerazione patologica di questa tensione, è un romanzo fondamentale.
Mi scuso anche con Emma. Forse la necessità di vivere amori appassionati era effettivamente un suo bisogno, senza il quale la vita non avrebbe avuto senso. Ella, in fondo, ha commesso un solo peccato; anzi, il solo peccato che esista, il peccato di tutti: ha procurato agli altri del dolore.
quote: “Dio, fammi accettare serenamente
le cose che non è in mio potere modificare.
Dammi il coraggio di modificare quelle che posso
e la saggezza di distinguere le une dalle altre.”
Meravigliosa preghiera. Da imparare. Madame Bovary ci rimanda a un monito che troviamo nella Bibbia, cioè ci fa capire quel che è il significato del doversi accontentare della propria posizione. Che non vuol dire, qualora ce ne sia la possibilità (oppure se la possibilità non c’è ma si è pregato in tal senso e il Signore, conoscendo l’essere umano e l’uso che ne farà, risponde con un si e cambia le circostanze), di non cercare di progredire, ma evitare lo scontentamento, che sfocia poi in conseguenze deleterie, fosse pure in uno stato depressivo. C’è da imparare