I personaggi de L’unico peccato
I personaggi del romanzo L’unico peccato (2006), poi riedito come SESSO MOTORE ZERO: L’UNICO PECCATO (2014)
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DOMENICO ARTURI – non più giovane investigatore privato fiorentino, ex poliziotto, il cui motto è “lo scopriremo solo vivendo”
LAURA SANI – ricercatrice universitaria profonda conoscitrice del linguaggio del corpo
ENRICO FINESCHI – carismatico professore universitario amante di Borges e con un lontano passato sudamericano
EDWARD BINDER – aspirante regista austriaco alquanto instabile
GIULIO GASPERI – bibliotecario quarantenne il quale ritiene esista un unico peccato che cerca in tutti i modi di evitare, commettendone molti altri nel frattempo
GRECO – spacciatore poco raccomandabile
RENZO PARISI – avvocato trentenne in cerca di ispirazione e di rigenerazione
(Renzo Parisi è anche protagonista dei racconti IL CLIENTE, pubblicato nel volume Antologia gialla di Toscana,e EROS E MORTE, pubblicato nel volume Nelle fauci del Mostro)
PAOLA BENI – dinamica insegnante di ginnastica di ventidue anni
MARCO CARBONI – laureando in scienze politiche che crede fermamente nella “Teoria Romantica dell’Amore”
(Marco Carboni è anche protagonista del racconto Quello sguardo languido , pubblicato su Thrillermagazine e del racconto IL LAVORO PIU’ BELLO DEL MONDO pubblicato nell’antologia Anonima assassini III, raccolta delle opere premiate e segnalate al concorso Orme Gialle 2008)
MASSIMO TERENZI – amico di Parisi e Carboni e grande sostenitore della “Teoria Casualistica dell’Amore”
“Ci sono dei libri gialli in cui il detective arriva alla soluzione del caso per intuizione, al termine di un lungo processo di empatia con l’assassino. Egli a poco a poco assorbe, se così si può dire, l’ambiente in cui è maturato il delitto e arriva a ragionare come il colpevole, identificandolo in tal modo. In altri gialli la soluzione viene trovata come freddo risultato di un processo esclusivamente logico, un po’ come risolvere un’equazione alla lavagna. In alcuni libri, infine, il colpevole è il maggiordomo e tutto quello che c’è scritto in mezzo è uno spreco di tempo.
Io, tra i miei personaggi non avevo alcun maggiordomo e quindi decisi che dovevo risolvere il caso Berti col mio metodo personale, il metodo Arturi, detto anche della logica per forza.”
DOMENICO ARTURI – investigatore privato
Fuori pioveva.
L’umidità permeava ogni cosa, quel giorno. Persino le mie sigarette facevano fatica ad accendersi. Il signor Bruno Berti stava apparentemente guardando oltre la finestra, volgendomi le spalle.
In realtà sapevo bene che il suo sguardo si era perso tra tutte quelle gocce di pioggia rincorrendo un’immagine cara.
Ora stava in piedi, con le braccia incrociate dietro la schiena e si sforzava di non piangere. Doveva essere una cosa insolita per lui ritrovarsi in quello stato. Era il tipo di uomo che, dopo l’infanzia, piange al massimo quattro o cinque volte nella vita. Quando piangono però vanno avanti degli anni, perlomeno dentro di loro.
La sua faccia tonda e larga era indurita da due occhi scuri che ti fissavano decisi facendoti sentire sotto esame (un esame che stavi fallendo). La corporatura era massiccia, rivestita con abiti costosi ma che non riuscivano a cadere bene. Un contadino, veniva da pensare, ma in realtà possedeva una piccola industria di componenti meccaniche messa su, com’era prevedibile, partendo dal nulla. Avevo preso le mie solite informazioni. Era in grado di pagarmi.
…
Arrivai a Firenze che era quasi l’ora di pranzo. Scesi dal treno, presi l’autobus e dopo pochi minuti fui nei pressi di casa. Con la valigia in mano arrivai a piedi fino all’isolato dove abitavo. Provai una sensazione indistinta di inquietudine, poi focalizzai bene e mi accostai a un portone. Annuii, me ne tornai indietro ed entrai nel caffé dove facevo di solito colazione.
– Posso lasciare qui la valigia? – chiesi al barista.
Dopo un paio di minuti me ne uscii con un vassoio su cui portavo due aperitivi con delle noccioline. Era una cosa che avevo visto in un film e che avevo sempre sognato di fare. Mi accostai a una macchina parcheggiata e bussai alla portiera. Lo sportello si aprì bruscamente e per poco non mi si rovesciò il vassoio. Dall’auto uscirono Vincenzo e un altro agente in borghese.
– Vi ho portato un aperitivo – dissi.
– Fanculo, Arturi! Dove sei stato tutto questo tempo? – fece il ragazzo, tentando con una mano di rovesciarmi il vassoio per terra. Ma me lo aspettavo e mi scostai salvando bevande e salatini.
– Dai! Lo potete bere anche se siete in servizio; è analcolico. – Lui mi guardò e se gli sguardi potessero uccidere non sarei campato neanche un secondo. L’altro agente lo raggiunse e gli mise una mano sulla spalla dicendogli: – fermo, Vincenzo, non fare stronzate. Non vedi che lo fa apposta per infilarti nei casini.
– Scommetto che Federici vuole parlarmi – dissi.
– Ci puoi giurare – sibilò a denti stretti Vincenzo e mi fece segno di salire in macchina. Bevvi veloce i due analcolici, appoggiai il vassoio con i bicchieri per terra davanti all’ingresso di un negozio pregando il commesso di riportarlo al bar ed entrai nell’auto con la ciotola delle noccioline in mano. – Davvero non ne volete? – chiesi.
Inoltre: Domenico Arturi visto da Oscar Montani (Marco Santoni)
LAURA SANI – ricercatrice universitaria
“Mentre la mia mente è spesso incerta, il mio corpo sa sempre cosa vuole e cosa è giusto fare. Se solo riuscissi a percepire tutti i suggerimenti che il mio corpo mi dà e a comportarmi di conseguenza sarei una donna felice”. Così pensava Laura Sani ma per il momento non era una donna felice perché le pareva di non riuscire a interpretare niente, si sentiva una stupida per questo, e poi ogni volta che si trovava di fronte al linguaggio del corpo si ricordava chi glielo aveva insegnato. Era come se lui, andandosene, le avesse lasciata appiccicata una specie di maledizione; a suo perenne ricordo.
La Sani sorrideva. Adesso lui continuava a parlare con entusiasmo e soddisfazione mentre le illustrava nei dettagli le cose di cui si stava occupando. È così facile mettere gli uomini a loro agio: basta chiedergli del proprio lavoro. Certo che adesso stava un po’ esagerando, rischiava di diventare noioso. Nella foga del discorso, per concentrarsi, il Gasperi prese a guardarsi le mani; involontariamente Laura si scostò un ciuffo dalla fronte per far tornare su di sé lo sguardo dell’uomo. Si rese conto del proprio movimento solo quando lui si interruppe quasi a metà di una frase e rialzò lo sguardo fissandola negli occhi. “Nel mio subconscio sono proprio una mignotta” pensò stizzita, cercando comunque di continuare a sorridere.
– Ma forse tu devi andare, Laura? – chiese il bibliotecario che, sia pure in modo confuso, aveva percepito il suo momento di disagio.
“Non voglio che equivochi e che pensi che non mi è piaciuto incontrarlo” si disse la ragazza e per evitare ciò infranse la sua regola principale nei rapporti con gli uomini, ovvero: “mai incoraggiare, anzi: scappare”.
– Sì, devo andare ma sono stata davvero contenta di incontrarti. Io capito spesso alla Nazionale e una di queste volte mi farebbe piacere, che so, mangiare insieme un boccone… Vorrei anche sapere qualcosa di più su di te come scrittore; quel tuo brano sul decidere e l’essere decisi era fortissimo.
– Quando ci vediamo?
– Quando? Ora non saprei. Dipende…
– Dimmi quando. Vediamo per una volta di decidere e non di essere decisi dalle circostanze.
Quindi fissarono. Lei non si era aspettata questo suo scatto di decisionismo, pensava che tutto sarebbe rimasto indeterminato, e vide con una punta di preoccupazione che lui si allontanava visibilmente soddisfatto. Le venne il dubbio di essere stata meno padrona della situazione di quel che pensava. Poi scosse la testa. “Sono solo le mie solite insicurezze” pensò, finendo di bere il succo d’arancia.
ENRICO FINESCHI – Professore universitario
Né gli anni numerosi, né le laute libagioni, né la vita sedentaria e intensa hanno offuscato la densa vitalità del Professor Enrico Fineschi.
Anche oggi, come ormai innumerevoli volte, questo uomo dalla pancia maestosa e la barba bianca si fa strada tra gli studenti che affollano le sue lezioni di Letteratura Sudamericana e raggiunge la cattedra. Giunto lì, si ferma e osserva attento i ragazzi che tacciono in attesa. Con un sorriso Enrico Fineschi si diverte a prolungare per qualche secondo quel magico silenzio; si sente come un direttore di orchestra che studi gli orchestrali prima di dar loro vita con un gesto. E, in effetti, quando inizia a parlare qualcosa di magico accade e le sue parole sono musica che affascina ed emoziona e la lezione scorre in un lampo ma lascia un segno che a lungo viene ricordato.
EDWARD BINDER – aspirante regista
Edward Binder era un ragazzo magro e agitato, quasi calvo. Adesso si rivoltava nel letto, come se le coperte lo stessero soffocando. Questo incubo era più brutto del solito. Si svegliò, ansimante, col cuore che batteva forte ma per qualche istante non si rese neppure conto di essersi destato. Ora era anche peggio che nel sogno. Nell’oscurità spiccavano i numeri rossi della sveglia. Erano le due e ventiquattro. Edward non riusciva a smettere di ansimare. Le ombre scure della stanza sembravano muoversi leggermente. Qualcosa pareva lambire il letto a una piazza e mezzo, come una risacca che giungesse dagli inferi. Il ragazzo richiuse gli occhi e si concentrò sui rumori. Sentì un respiro pesante a meno di due metri da lui. Binder sollevò la testa, più lento che poteva e scrutò verso i piedi del letto. Non riusciva a vedere niente. Ora il respiro si era spostato. Era basso, quasi al livello del pavimento. Allora iniziò a muovere piano la mano verso l’interruttore della luce. C’era quasi arrivato, quando scorse un movimento. La sagoma scura di un uomo era apparsa nel vano della porta. Puntava qualcosa verso il letto. Edward fece per sollevarsi ma venne accecato dalla luce di una torcia.
GIULIO GASPERI – bibliotecario
Il telefono squilla sulla scrivania. Giulio Gasperi solleva la cornetta senza distogliere lo sguardo dallo schermo del computer. Dice – pronto – ma in realtà non è affatto pronto ad affrontare quel lungo silenzio che segue e infine la voce di lei che, dopo aver tirato su col naso, mormora – Giulio.
Il bibliotecario alza gli occhi al cielo e maledice il momento in cui ha avuto la brillante idea di dare a Marta il suo interno, in modo da evitare che il centralinista della Nazionale potesse iniziare a sospettare della sua fedeltà coniugale. Ormai, però, non c’è altro da fare che rispondere.
– Marta…
– Giulio.. io penso che dovremmo vederci. – La voce di lei cerca di mostrarsi dignitosa ma il dolore sgorga a fiotti dalla cornetta. Gasperi per un attimo ha la tentazione di cedere ma poi pensa che sarebbe solo peggio, un ulteriore incontro penoso.
– Mi pare che sia già tutto chiaro. Non c’è altro da aggiungere. Se ci accaniamo a continuare non potrà che finire male e tu soffrirai molto più di quello che stai facendo adesso.
– Io non mi sto accanendo… E poi, brutto stronzo, che ne sai tu di quanto io sto soffrendo!
Il bibliotecario si dà del cretino e rimane in silenzio.
… omissis …
– Ci sei, Giulio? … Perché deve finire?
– È già finita.
La sente piangere. Gli viene da pensare: “le lacrime sono il sangue dell’anima (e tu ora sei ferita)” ma, saggiamente, non glielo dice. Era il titolo di una poesia che aveva cercato di scrivere sin da ragazzo ma si era sempre fermato al titolo. D’altronde, cos’altro c’era da aggiungere?
– Sei un bastardo – continua a ripetere lei, mentre piange.
– È meglio così, Marta.
– È meglio per te!
– È meglio per tutti; e lo sai benissimo anche tu.
Di nuovo singhiozzi. Ma lei non ribatte in alcun modo. Forse si è convinta, oppure è esausta. Il Gasperi pensa che sia il momento giusto per chiudere. Se se lo lascia sfuggire chissà quanto dolore ancora dovrà sorbirsi.
– Allora, ciao, Marta.
Lei non risponde.
Con cautela, il Gasperi riaggancia il telefono. Poi rimane un paio di minuti a fissare lo schermo, senza pensare a niente.
GRECO – spacciatore
– Appoggiati al muro con le mani e allarga le gambe – disse il Greco. Poi iniziò a perquisirlo, cercava microfoni o cose del genere. Non trovò nulla. Nessuno li aveva seguiti. Approfittò del fatto che il ragazzo stava con le gambe divaricate e con le mani al muro per mettersi dietro alle sue spalle e prendere con calma la mira. Poi lo colpì con un calcio preciso nelle palle. Edward crollò a terra senza un suono, scorticandosi la faccia strusciando contro l’intonaco del vicolo.
– Tu non sai quanto mi sono divertito a fare questo giochino quando ero in polizia – gli sussurrò nell’orecchio il Greco, chinandosi su di lui. – Poi mi hanno cuccato a beccare mazzette dagli spacciatori e fine del gioco. – Si rialzò e si accese un’altra sigaretta. Gettò a spregio il fiammifero sul Binder che ancora si rotolava. – Non sanno il piacere che mi hanno fatto, quelle fave, spingendomi a passare dall’altra parte della barricata… Tirati su stronzo, non posso passare tutta la sera a stare ad ascoltare tu che frigni. Caccia i soldi.
Il ragazzo si concentrò e riuscì ad alzarsi. Prese da una tasca un rotolo di banconote e lo dette allo spacciatore. – Ho detto a mia zia che sono entrati dei ladri in casa e che hanno portato via…
– Non me ne frega niente dove li hai trovati – lo interruppe il Greco. Finì di contare il denaro in silenzio. Poi fece un cenno di assenso con la testa.
RENZO PARISI – giovane avvocato
Al Parisi pareva di fare dei progressi nella sua lenta marcia di avvicinamento a Serena all’interno delle stanze severe del Grenoble. Innanzi tutto, lei spesso si sedeva al suo fianco o, se era lui a sedersi accanto lei, mostrava di apprezzare. Quantomeno sorrideva, anche se, pensava dubbioso Renzo, quella ragazza era un tipo allegro e sorrideva di frequente. Gli piaceva anche per questo. A prescindere, comunque, dal posizionamento in aula era riuscito a instauraci un rapporto non certo di confidenza ma quantomeno di familiarità e aveva raccolto diverse informazioni. Dal numero di telefono di Serena aveva ricavato l’indirizzo preciso dove lei abitava e con quello e il cognome si era procurato lo stato di famiglia dal quale ella risultava come unica figlia dei propri genitori. Era, inoltre, nata a dicembre. Sulla base dello stato di famiglia, Renzo aveva potuto permettersi di buttare là nella sua conversazione con la ragazza una frase del tipo “questa è una classica risposta da figlia unica”. Sperava che lei non avesse fratelli o sorelle più grandi che si fossero trasferiti altrove. D’altronde chi non risica non rosica. Gli andò bene. Lei lo guardò un po’ stranita, poi sorrise e fece: – si vede così tanto? – Renzo rispose di no; era solo che lui possedeva uno spiccato senso di osservazione. Dopo pochi minuti, stavolta andando sul sicuro grazie alla conoscenza della sua data di nascita, raddoppiò dicendo: – tu Serena, devi essere proprio del Capricorno –. Aveva riflettuto parecchio prima di giocare quella carta. Da un lato, infatti, c’era la certezza di non sbagliare e di simulare una diabolica perspicacia, dall’altro c’era il rischio di imbattersi in una che considerava l’oroscopo una colossale sciocchezza (come, peraltro, la riteneva il Parisi). La conoscenza dei segni zodiacali, poi, non si intonava troppo con l’immagine professionale e posata che Renzo stava dando di sé. Comunque, si risolse infine il ragazzo, questa storia dell’oroscopo può dare un tocco di estrosità e leggerezza alla mia figura e, anche se lei odiasse lo zodiaco, non potrà mai comunque negare il fatto oggettivo che ella è un Capricorno. Si era quindi studiato con diligenza le caratteristiche di quel segno su Sedurre con lo Zodiaco, un libro che, sebbene lui non ci credesse, doveva ammettere che nel descrivere le qualità dei vari componenti dello zodiaco ci azzeccava da morire. Purtroppo dal “conoscere” il proprio obbiettivo al “sedurre” era tutta un’altra storia e lì il libro non è che potesse aiutare più di tanto ma, insomma, bisognava accontentarsi. Dunque Renzo aveva studiato il Capricorno e, per avere un ulteriore argomento di conversazione, anche il proprio segno. Poi aveva stabilito di parlare di oroscopi soltanto quando fosse stato solo con Serena, perché se ci fosse stato qualcun altro questi avrebbe potuto chiedergli – e secondo te, di che segno sono io? – col rischio di far scivolare la conversazione su qualche altra costellazione di cui Renzo non sapeva nulla, con risultati disastrosi. D’altronde non poteva mica studiarsi tutto lo zodiaco solo per fare effetto su una ragazza.
PAOLA BENI – ventenne insegnante di ginnastica
Paola Beni mi telefonò nel pomeriggio.
– Allora, Arturi, come le avevo detto, la festa è domani sera.
– Dove ci troviamo?
– Ci vediamo a mezzanotte in piazza della Libertà, dove c’è il parcheggio.
– A mezzanotte?
Rise. – Perché, lei a quell’ora è già in pigiama?
– Di solito, sì – ammisi.
– Si faccia un bel caffé, allora.
– Il Binder sarà lì, in piazza della Libertà?
La sentii ridere di nuovo. – E che! Vuole risparmiare il biglietto della festa? È un bel tirchio, lei. No: lo troveremo alla villa, spero.
– Spera?
– Saremo più di trecento persone; lui dovrebbe esserci. Comunque, male che vada, si divertirà un po’ e vedrà tanta gente.
– Fremo dalla voglia.
– Ho già avvisato anche quel suo amico Marco… Lo sa che viene in palestra quattro volte la settimana?
– Cerchi di non fare innamorare anche lui.
– Già fatto! – Rise di nuovo.
– Non ne dubitavo. Mi lascia il suo telefono per richiamarla se ci fosse qualche problema?
– Non do mai il mio numero, Arturi. Glielo avevo già detto.
– Pensavo potesse fare un’eccezione. A domani sera.
– A domani, allora. Non mi venga in pantofole! – Riattaccò mentre stava ancora ridendo.
La villa dove si teneva la festa era sulla via Bolognese, un po’ fuori Firenze. Ce ne sono parecchie, intorno alla città, di antiche dimore utilizzate per questo tipo di attività. I proprietari le spogliano di quasi tutti i mobili e le affittano per una sera a organizzazioni, più o meno professionali, che le gettano in pasto a qualche centinaio di giovani scatenati.
– Una volta, dei disgraziati, per risparmiare sui costi, ci dettero da mangiare del cibo per cani, spalmandolo sul pane per farne dei crostini – raccontava Paola, allegra, – sapete che non se ne accorse nessuno! – Stavamo facendo una lunga fila per entrare. Da dentro si udiva una musica fortissima.
– Non è venuto il tuo ragazzo, Paola? – chiese il Carboni, – mi sarebbe piaciuto conoscerlo, dato che ne parli così spesso.
– È malato. Non ce l’ha fatta.
– E l’ha mandata così a giro da sola? – feci.
Scosse la testa sorridendo – gliel’ho già detto che so difendermi.
– Il problema è se vuole difendersi.
Paola ammiccò al Carboni, indicandomi con la testa – lo sai, Marco, che questo tuo amico è un bel marpione?
– Guardi, che potrei essere suo padre – dissi.
– Potrebbe – rise, – ma non lo è.
Mi guardai intorno. La fila scorreva lenta. – Lo vede il nostro amico austriaco?
Fece segno di no con la testa – non si preoccupi, lo troveremo dentro. Glielo indicherò appena lo scorgo. Lei cerchi solo di starmi vicino… dovrebbe riuscirle facile; pedinare la gente fa parte del suo mestiere.
– Stasera sarà un piacere – borbottai.
MARCO CARBONI – studente universitario
Marco Carboni ha lasciato guidare la macchina all’Arturi. Si è legato con la cintura nel sedile posteriore e si lascia sballottare dalla forza centrifuga quando l’auto curva.
– Anche lei Carboni, mi va a prendere quella merda! – gli dice l’uomo al volante. Ma è una voce lontana, che non saprebbe dire bene da dove venga. – E poi, ci ha pure bevuto sopra. Non lo sa che fa male mescolare alcool e pasticche?
– Sapevo che fa male l’alcool… che fanno male le pasticche… ma a tutte e due insieme non avevo mai fatto mente locale – si sforza di dire. L’altro ride.
– Beh! Ora lo sa!
“Non sono neanche capace di farmi un buon viaggio”, pensa il giovane, “non riesco proprio a fare niente”. Si ricorda della sua tesi sugli indipendentisti ungheresi e gli viene da vomitare. Non ce la fa e resta con la nausea. Cerca di pensare a qualcosa di bello.
– Non è meravigliosa? – dice.
– Chi?
– Paola… la amo alla follia.
L’Arturi ride: – ci ripensi domani, quando le è svanito l’effetto della pasticca. Un tempo vendevano delle magliette con scritto “non sposarsi mai se non sono passate almeno sei settimane dall’ultimo viaggio”.
– No – protesta, – è tanto che ci penso. Ne ero convinto anche prima di venire a questa festa.
– Sareste proprio una bella coppia di impasticcati… insospettabili impasticcati. – Il detective ci pensa su qualche secondo, poi aggiunge, quasi sottovoce: – siete due bravi ragazzi. Dei bravi ragazzi avete tutti i pregi e tutti i difetti. Questi ultimi, peraltro, sono in sostanza uno solo: ovvero l’essere insospettabilmente meno bravi di quel che appare.
– Grazie! – dice il Carboni. Gli viene di nuovo da vomitare e questa volta gli riesce.
MASSIMO TERENZI – amico di Parisi e Carboni
Uno dei molti hobby del Terenzi era quello di collezionare articoli di giornali che riportavano notizie curiose o grottesche e a Massimo venne da pensare agli scarni articoli sulla morte dell’Alessi, i quali, a loro modo, erano stati notevoli. Li aveva pertanto inseriti a pieno titolo nella sua collezione. La cosa che li rendeva interessanti non era tanto il contenuto ma, piuttosto, la loro riluttanza a trattare l’argomento. Il Professore non era un principe del foro o un accademico illustrissimo ma il semplice trascorrere degli anni gli aveva portato un certo prestigio e una discreta notorietà, sia pur limitata all’ambito dell’università e della sua professione. Nondimeno, i soli due articoli di cronaca locale che avevano accennato alla sua dipartita erano poco più che reticenti trafiletti. In uno si diceva semplicemente che l’Alessi, noto avvocato civilista e professore universitario, era deceduto a Bangkok per un arresto cardiaco. Ironia della sorte, il professionista si era concesso il viaggio proprio per festeggiare il sessantesimo compleanno. La salma sarebbe stata rimpatriata una volta espletate le formalità di rito. Nell’altro si accennava al fatto che l’Alessi era un appassionato della Thailandia, ove si era recato varie volte nel corso degli ultimi anni. La causa della sua morte era da ricondursi a un problema cardiaco. I soccorsi, proseguiva l’articolo, “date le circostanze in cui l’infarto si è verificato” erano stati attivati con notevole ritardo e l’uomo era giunto all’ospedale ormai morto. Probabilmente fu proprio a causa dei dubbi sulle “circostanze” in questione che né l’Ordine degli Avvocati né il Senato accademico ritennero opportuno inviare loro rappresentati ai funerali del Professore (non inviarono nemmeno una corona di fiori).
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