Fiabamara

Questo racconto fa parte dell’antologia ALICE, BARBARIGO E TUTTI GLI ALTRI

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Baffodoro lasciò Agedor, il suo villaggio, in cerca di fortuna in una di quelle notti nelle quali la luna sorride forte ed i cuori degli uomini tornano fanciulli.

Baffodoro era un giovane dall’intelligenza pronta e dal braccio veloce e saldo, dalla mente piena di progetti e di entusiasmi troppo ampi per poter restare confinati nel ristretto orizzonte del suo borgo. Quella sera si avvicinò alla vecchia che l’aveva nutrito e curato per tutta la sua breve vita e le disse:

“Vecchia, ti ringrazio molto per quello che hai fatto per me; mi trovasti nel Bosco Oscuro che ero un fanciullo e mi tenesti con te. Mi insegnasti la religione dell’onore e dell’onestà e facesti di me un vero uomo. Te ne sono grato ma ora devo andare. Devo scoprire …” e qui la sua voce si fece dura come l’acciaio delle spade dei Lancieri del Re “…devo scoprire chi mi abbandonò in quel bosco; devo scoprire chi sono stati i miei genitori.”

La vecchia sorrise.

“Sapevo che questo giorno sarebbe arrivato, piccolo mio. I giovani di questo villaggio non trovano mai la forza di staccarsi dai loro letti natii e la vita qui è priva di prospettive e di gloria. Essi si rassegnano facilmente a questa piatta esistenza ma tu no; tu, Baffodoro sei diverso. Penso proprio che nelle tue vene scorra sangue nobile.” Qui la voce della donna si interruppe un secondo commossa ma lei si fece forza e riuscì a continuare “Vai, figliolo caro, scopri lontano da questo odioso villaggio il tuo passato ed il tuo glorioso futuro. Ma ricordati sempre della vecchia che ti nutrì.”

La voce di Baffodoro vibrava commossa quando salutò per l’ultima volta la donna; per un istante sentì forte la tentazione di rimanere lì, nel suo borgo natio (ormai lo considerava tale), tra quella gente che conosceva. Ma quella gente era arida e meschina e quel futuro era piatto e vile. Quindi socchiuse gli occhi, strinse i denti ed iniziò il suo viaggio facendosi guidare dalla luna ridente.


La struttura di questa parte iniziale della favola si riallaccia ad uno schema comune a molti altri racconti popolari. E’ la storia di un giovane che va nel mondo, si distacca dal suo nido, in cerca di fortuna. Questo viaggio, solitamente coronato da un incontro con una donna, è l’emblematica trasfigurazione di un concetto di iniziazione: il giovane, mediante il viaggio, viene a contatto, viene iniziato al mondo degli adulti che gli si rivela in tutti i suoi aspetti positivi e negativi. Da questo impatto con la realtà il giovane è forgiato e temprato in modo tale da poter affrontare la vita in maniera positiva: egli, cioè, diviene un “cittadino esemplare”, si costruisce una vita, una famiglia in perfetto accordo con la società che lo circonda. Questo è il reale significato della tradizionale formula “e vissero felici e contenti” che chiude la maggior parte delle favole.

Oltre al tema dell’iniziazione, e forse strettamente legato ad esso, è qui presente un altro schema caratteristico: la ricerca della propria identità. Il protagonista infatti pone come scopo primario del suo viaggio la scoperta delle proprie origini, dei propri genitori. Fuori di metafora abbiamo che in realtà il protagonista cerca di risolvere una crisi di identità; crisi che caratterizza una fase passeggera dello sviluppo caratteriale di molti giovani e che deve necessariamente essere risolta. La soluzione di questo nodo è sempre traumatica e dolorosa, costa sacrifici e sudore. Infatti in queste fiabe spesso il protagonista deve superare molti ardui ostacoli prima di veder legittimata e riconosciuta la sua origine che, tra l’altro, essendo queste favole imbevute di un certo ottimismo, risulta spesso elevata e nobile.

Un aspetto assolutamente originale e moderno inserito nel contesto arcaico della fiaba è invece l’accenno al conformismo ed alla mancanza di iniziativa dei giovani di Agedor che si lasciano tranquillamente assorbire dalla vita monotona e piatta del villaggio.

Qui la vecchia si rivela, stranamente, un elemento di rottura con le consuetudini paesane. Infatti nelle favole tradizionali sono proprio i “vecchi”, gli “anziani” i massimi depositari e sostenitori di quell’ideale di saggezza contadina che consiste essenzialmente nella rassegnazione fatalistica al proprio destino ed in un abbastanza stretto conservatorismo. Evidente, è qui la mano di un autore contemporaneo che si muove talvolta al di fuori degli schemi classici e tradizionali della vecchia novellistica. Non mi pare esistano in questa prima parte ulteriori elementi degni di analisi. Possiamo proseguire nella lettura …


Infine l’orizzonte nascose Agedor ed i verdi campi che la circondavano. Il sole si stava levando e Baffodoro poté godere dei grandioso spettacolo dell’alba. Ma presto il ragazzo iniziò a sentire la stanchezza della lunga marcia e la fame gli aggredì lo stomaco. Colse alcuni frutti selvatici e si distese in un prato verdissimo. Dormì. Quando le palpebre del giovane si schiusero, il sole brillava forte sulla sua testa e l’aria si era fatta calda e secca. Baffodoro pensò bene di continuare a lasciarsi guidare dal Fiume Che Corre e lo seguì infatti sino a quando questi bruscamente si inabissò in una voragine gigantesca e svanì. Il ragazzo guardò perplesso il paesaggio che gli si stendeva innanzi: i verdi prati lasciavano il posto a campi brulli e scuri, le foreste si estinguevano bruscamente e le coltivazioni sopravvivevano e stento. In definitiva il territorio si faceva semidesertico ed arido. Strano.

Baffodoro restò un po’ indeciso se inoltrarsi per quelle terre o se tornare indietro seguendo a ritroso il corso del fiume. Infine scorse in lontananza una baracca circondata da pochi, miseri campi. Quando la raggiunse, vide un anziano e solitario contadino che stava zappando quei campicelli duri ed avari. Il vecchio alzò lentamente la testa, lo vide, sorrise, quindi la riabbassò, sempre continuando a zappare. Baffodoro si avvicinò ancora e gli rivolse la parola:

“Vecchio; mi chiamo Baffodoro e vengo da Agedor. Mi daresti un po’ d’acqua?”­

Il contadino si fermò, si appoggiò sulla zappa e sorrise ancora.

“Agedor, dici. Mai sentito. Ma se hai sete prendi dell’acqua da quel pozzo.”

Baffodoro alzò le spalle e tuffò il secchio nel fondo del pozzo.

Riuscì a trarne solo una ributtante fanghiglia.

“Vecchio,” disse “qui non c’è acqua.”

L’anziano contadino stavolta non sorrise.

“Se attendi un po’, la terra si deposita e resta in superficie un velo d’acqua.”

“Non posso bere questo fango, vecchio.”­

“Io lo bevo,” rispose l’altro “ormai da mesi.­”

“E’ da molto che non piove, vecchio? Ed il fiume da quant’è che è stato inghiottito dalla terra?­”

Il villico sospirò e tristemente disse:

“Da più di nove mesi le uniche acque che bagnano questa terra sono le lacrime dei suoi abitanti. Da più di nove mesi la Sacerdotessa Maggiore ha lanciato un terribile incantesimo su queste terre. Da quando il nostro signore, il Conte Duca di Linx, ha osato rifiutarsi di accondiscendere ai suoi infami capricci, la Sacerdotessa Maggiore del Tempio ha stregato Linx ed il suo contado.”

“Cosa voleva,” chiese Baffodoro “cosa voleva la Sacerdotessa dal Signore di Linx?­”

“Voleva sacrificare ai suoi terribili dei la figlia del Siniscalco,   la bellissima Leyra, ora seconda e nuova Contessa Duchessa di Linx.” Baffodoro sorrise stupito.

“Quante mogli può avere il Conte Duca, vecchio? C’è chi dice che anche una sola è di troppo ed egli ne ha due!”

“Giovane, la prima moglie del Signore di Linx, gloria all’anima sua, è morta da diversi anni mentre dava alla luce Uriel, la sua luminosissima e serenissima figlia, prima erede del Ducato Contea di Linx. Ora il Conte Duca ha promesso in sposa Uriel a chi riuscirà a penetrare nel Tempio posto sul fondo della Valle Lunga, ed una volta entratovi ucciderà la Sacerdotessa rompendo l’incantesimo.”

“Io …” annunciò il giovane “io ucciderò la maligna Sacerdotessa e sposerò la bella Uriel.”­

Il vecchio sorrise amaramente.

“Qual è il tuo nome?” chiese con aria di scherno “Baffodoro, vero? Baffodoro di Agedor; un nome lungo, non sarà facile scriverlo sulla lapide di cui avrai presto bisogno. Tre reggimenti di Lancieri, i dodici cavalieri più forti della Contea, sessantanove principi e condottieri stranieri sono entrati nella Valle Lunga senza riuscire ad uscirne. La Valle ed il Tempio sono sorvegliati da un drago gigantesco e da dodici Amazzoni. Solo dopo aver ucciso drago ed Amazzoni riuscirai a penetrare nel tempio.”­

Baffodoro non ebbe esitazioni.

“Credi che se andrò a Linx dal Conte Duca egli mi darà una armatura ed un cavallo per compiere la missione?­”

Il vecchio sogghignò.

“E’ più facile che ti faccia squartare.” Si interruppe ed indicò una direzione. Baffodoro la segui con lo sguardo, ma invano, sino a quando essa non toccò l’orizzonte e svanì dietro di esso   “Di là,” aggiunse il contadino “di là c’è Linx. In ventiseimilatrenta lunghi passi sarai arrivato.”­

Baffodoro si incamminò attraverso quel deserto.


Irrompe in questa seconda parte della fiaba l’elemento più propriamente “fantastico”, l’incantesimo, la magia, il sovrannaturale. La maledizione gettata su Linx, il Drago, la Sacerdotessa del Tempio (variazione sul tema della Strega, della Fattucchiera) sono tutti elementi appartenenti alla tradizione favolistica. Ma soprattutto abbiamo qui una situazione caratteristica della fiaba: la principessa promessa in sposa all’eroe se egli riuscirà ad abbattere gli ostacoli che si troverà di fronte. Queste prove, questi ostacoli (riallacciandosi ad uno dei discorsi portati avanti in precedenza) sono appunto gli elementi che permettono di forgiare un individuo, sono fattori negativi che se superati permettono il raggiungimento di uno stato di benessere. Gli incantesimi possono essere vinti dalla volontà, dalla forza, dall’impegno dell’eroe. Questo enunciato è solo la trasfigurazione in senso fantastico di un altro concetto: “attraverso la volontà, l’impegno, il lavoro si può acquisire una elevazione sociale ed economica.” Questo assunto può essere considerato come un enunciato precapitalistico, anzi; potremmo dire che esso sta alla base della società capitalistica moderna. E’ la riduzione in termini semplificati del concetto di “mobilità sociale” ed è strano in definitiva che esso sia presente all’epoca nella quale pongono le proprie radici buona parte delle favole; ovvero il Medioevo. Infatti la struttura socioeconomica medievale è caratterizzata in genere dalla assoluta negazione del concetto di “mobilità sociale” e da una rigorosa rigidità di schemi preordinati e tradizionali, solo nell’ambito dei quali gli appartenenti ad ogni classe potevano agire. Probabilmente questa vagheggiata mobilità sociale che possiamo frequentemente riscontrare nelle favole è una reazione inconscia all’immobilismo di classe del Medioevo o forse è dovuta ad apporti posteriori risalenti alla più tarda epoca medievale; quella dei Comuni nella quale andava nascendo, grazie al rapido arricchimento di tanti mercanti e banchieri, l’idea di un “progresso sociale”.

C’è poi da considerare il rapporto che nasce tra la principessa promessa sposa ed il Regno che andrà all’eroe. Come si è potuto creare questo rapporto? Una spiegazione semplicistica potrebbe essere che questo sia un rapporto di natura essenzialmente “tecnica”, funzionale alla trama ed alla morale della fiaba; in definitiva l’eroe va gratificato per i suoi meriti e quindi è d’uopo assegnargli un regno. Ma i regni hanno generalmente un legittimo proprietario che, in un modo o nell’altro l’eroe dovrebbe estromettere dal trono. L’eroe è un “buono”, non può fare una cosa cosi negativa (soprattutto secondo le concezioni medioevali) come negare il diritto di Legittimità, quindi è stata inventata la “scappatoia legale” del matrimonio con un erede al trono; una soluzione in definitiva non traumatica. Ma al di là di una spiegazione così “tecnica” possiamo azzardare altre interpretazioni di questo fatto. La principessa (o talvolta il principe) che porta in dote il trono può stare a significare lo stretto legame che esiste tra amore e successo sociale, in altre parole: la realizzazione di un uomo deve avvenire in ambedue i campi per essere completa. O forse potremmo dire che il superare le prove (il lavorare) per amore (della principessa) porta inevitabilmente, in un modo o nell’altro al successo sociale. Od addirittura potremmo vedere nel “Regno” un puro simbolo di felicità ed avere allora una visione forse qualunquistica della vita: solo l’amore conta, ed attraverso esso si giunge alla felicità.

Si notano anche in questa seconda parte delle sfasature, delle improprietà nella struttura della favola. L’autore infatti introduce in essa elementi che di solito non hanno riscontro nella tradizione favolistica: le Amazzoni, la Sacerdotessa del Tempio, i sacrifici uma­ni, i Lancieri. Singolare è anche la figura del vecchio che se inizialmente pare obbedire a schemi tradizionali (il l’anziano saggio che istruisce dall’alto della sua esperienza il giovane) successivamente mette in mostra una mentalità acida, cinica e pessimistica (“è più facile che ti faccia squartare”) insolita per quel determinato personaggio che di solito è bonario e comprensivo e cerca di non distruggere le illusioni dei giovani (“la lapide di cui presto avrai bisogno”) ed incarna in definitiva la figura paterna.

Vedremo nel proseguo del racconto se queste discrasie saranno riassorbite.


Uno dei Lancieri posti di guardia al palazzo del Conte Duca di Linx guardò con aria divertita gli abiti laceri e poveri di Baffodoro, sghignazzò forte, poi gli rispose:

“E tu vorresti parlare col Conte Duca?! Vattene via, ragazzo! Gira alla larga.”

“Ma è importante.” Replicò Baffodoro.

“Levati dai piedi.” Disse, con tono improvvisamente fattosi duro, il lanciere.

Il giovane considerò un secondo la situazione e concluse che sarebbe stato stupido farsi sbattere in prigione continuando ad insistere, cosicché assunse un atteggiamento supplichevole e chiese:

“Se non posso parlare con il Conte Duca, datemi almeno la possibilità di vederlo.”

La guardia sorrise.

“Per questo non ci sono problemi. Come ogni giorno, il Conte Duca uscirà da questa porta tra nove ore per recarsi alla cattedrale. Aspetta e lo vedrai.”

Baffodoro aspettò. Una mezzoretta prima dell’apparizione del Signore di Linx, due ali di folla iniziarono a formarsi attorno alla strada che questi avrebbe seguito per andare al tempio cittadino. Baffodoro dovette lavorare di gomiti per mantenersi in prima fila. Dei lancieri, uno ogni cinque passi, tenevano a bada e sotto controllo la folla. Infine, ed il cuore del giovane batteva forte, le porte del palazzo si aprirono ed apparve il Conte Duca. Procedeva su un immenso stallone nero ed attorno a lui cavalcavano i dignitari ed i nobili della sua corte. Davanti e dietro al gruppo dei Signori stavano due drappelli di ventiquattro lancieri che montavano degli splendidi destrieri candidi come la neve di primavera.

Baffodoro restò un attimo come incantato ed abbagliato dal magnifico spettacolo, poi si riscosse e si ricordò che doveva agire. Attese il momento propizio, quindi si lanciò in mezzo alla strada sorprendendo i militari addetti a contenere la folla. Si diresse verso il Conte Duca a tutta velocità. Un soldato gli spinse contro il cavallo; Baffodoro riuscì ad evitarlo gettandosi a terra. Allora il lanciere, torreggiante sopra di lui, alzò la sua picca e tentò di infilzarlo come un tordo. Baffodoro si rotolò sul fianco ed evitò il colpo. L’asta si conficcò nella terra polverosa ad un palmo dal suo corpo. Il ragazzo di Agedor afferrò la lancia e tirò con tutta la sua forza. Il lanciere la teneva ancora in mano e ne fu disarcionato; Baffodoro fece in modo che cadesse sopra un altro milite che stava accorrendo. Allora il giovane balzò in piedi con la rapidità di una ranocchia selvatica e si diresse verso il Conte Duca. Uno dei nobili gli tagliò la strada col suo cavallo ed alzò sopra la sua testa una pesante spada sollevandola con entrambe le mani. Baffodoro, quando era a terra, aveva raccolto una manciata di terra che ora lanciò negli occhi del cavaliere, accecandolo, poi sgusciò sotto al cavallo e finalmente raggiunse il Signore di Linx. Afferrò le briglie del suo destriero ed urlò quasi:

“Signore mio, io salverò il tuo paese!”

In quel momento, il piatto di una daga lo colpì alla nuca ed egli si perse in un sonno senza sogni.

Quando si svegliò la testa gli doleva come se gliela avessero staccata dal collo e poi rinfilata alla bell’è meglio. Il Conte Duca gli sorrideva.

“Sei agile come un gatto,” gli disse “cos’è questa storia che salverai il mio paese?­”

Baffodoro respirò forte, poi rispose:

“Signore, fatemi cavaliere, donatemi un’armatura ed una spada ed io ucciderò la Sacerdotessa del Tempio.­”

Il Conte Duca sorrise ancora.

Due giorni dopo, Baffodoro, armato di tutto punto ed in sella ad un destriero nero come la pece dell’inferno, s’inoltrò attraverso le tristi pietraie della Valle Lunga.


 

Questa terza parte comunemente, come sviluppo narrativo, non ha riscontri nella novellistica tradizionale; infatti il protagonista di solito non è costretto ad affrontare tutte le difficoltà del nostro Baffodoro prima di convincere il “re” ad affidargli la perigliosa impresa. Ma se queste pagine sono estranee alla tradizione fiabesca esse contengono tuttavia un elemento molto caro alla “cultura popolare” la quale è in definitiva l’humus da cui si sviluppano favole e novelle. Infatti la figura del Lanciere che impedisce al protagonista di parlare col Conte Duca è una rappresentazione emblematica della frattura che il popolo ha sempre sentito esistere tra sé ed il “Palazzo”. In pratica, lo Stato è visto, con immagine quasi kafkiana, come una entità dai connotati impersonali con la quale è impossibile stabilire un rapporto diretto ed umano. La frattura tra governanti e governati è qui ricomposta solo ricorrendo ed introducendo nella vicenda il “fantastico” e “l’irreale” come in effetti è da considerarsi la folle corsa di Baffodoro verso il Signore di Linx e la realizzazione da parte di quest’ultimo dei desideri e delle aspirazioni del protagonista. Qui il pensiero dell’autore però è variamente interpretabile: egli ricorre a questo elemento “fantastico” in funzione meramente narrativa (ovvero per permettere alla trama di progredire secondo uno schema da lui precedentemente tracciato) o questo episodio nasconde in definitiva un anelito di ottimismo; una specie di messaggio moralistico e fiducioso che può essere cosi esplicitato: “le componenti dell’organizzazione statale non sono strutturate in modo tale da garantire il soddisfacimento dei bisogni del popolo, funzione che non rientra tra gli obbiettivi principali di tale struttura, ma se all’interno di esse agiscono persone dotate di saggezza ed umanità (qui rappresentate dal Signore di Linx) si possono lo stesso, occasionalmente, raggiungere risultati positivi per la comunità”. Potremo risolvere questo dubbio solo proseguendo la lettura del testo. Quindi proseguiremo…


Baffodoro aveva percorso solo poche centinaia di metri quando la incontrò. Era bella, incredibilmente bella. I suoi occhi parevano scintillare sotto le sopracciglia scure e sottili. I capelli castani le cingevano l’ovale del viso con la leggerezza della schiuma delle onde e le scendevano dolcemente lungo la schiena sinuosa. Le sue labbra erano sottili e snelle come il suo corpo abbronzato.

Aveva un solo difetto: era Lilith, una delle dodici amazzoni e tra le mani stringeva un arco con una freccia già incoccata. Era apparsa improvvisamente ad una decina di metri da Baffodoro, sulla strada che lui intendeva seguire.

L’armatura del giovane era pesante ed il sole gravava sulla valle come se avesse voluto incendiarla. Baffodoro, quindi, si era ormai da tempo tolto l’elmo che aveva attaccato alla sella del destriero e che suonava tristemente al caracollare della bestia.

Il ragazzo si arrestò e sorrise ammirato e nervoso all’amazzone.

Quella iniziò a parlare con tono calmo e quasi paziente:

“Cavaliere, sei entrato nella Valle Lunga, dominio della Sacerdotessa del Tempio.”

Baffodoro si morse un po’ le labbra e rispose quasi seccamente:

“Lo sò.”

L’altra proseguì.

“Devi andartene, straniero.”

E lo disse senza brutalità e senza dolcezza, con un tono stranamente neutro. Baffodoro sorrise. La ragazza era armata assai leggermente: l’arco, le frecce, un lungo stiletto al fianco ed un piccolo corno che, essendo Lilith di sentinella, doveva servirle a segnalare l’arrivo di stranieri nella valle. Il giovane sorrise ancora e le rispose:

“Non me ne andrò; devo incontrare la Sacerdotessa del Tempio.”

Lilith rimase impassibile.

“Non puoi. Volta il tuo destriero e vattene. Se no, morirai.”

Glielo disse con la massima tranquillità; era un’informazione, non una sfida. Baffodoro scosse la testa.

“Devo vedere la Sacerdotessa…”

L’amazzone ritenne inutile continuare a discutere; quando un cavaliere decide una cosa la porta sino in fondo e se questo guerriero aveva deciso così, conscio dei pericoli ai quali andava incontro, non sarebbe certo stato possibile fargli cambiare idea. Dunque Lilith, con una calma e lenta flessione delle braccia affusolate, sollevò l’arco.

Baffodoro la fissava intensamente. Quella ragazza non avrebbe osato scagliare le sue frecce contro un uomo che non accennava a difendersi.

Scrutò con attenzione indicibile il volto dell’amazzone mentre ella metteva in tensione l’arco: non vi erano tracce di incertezza e neppure di pietà. La ragazza pareva essersi trovata spesso di fronte a situazioni del genere. Questo pensiero colpì Baffodoro che in quel momento comprese che lei avrebbe tirato. Lo scudo e l’elmo erano attaccati alla cavalcatura, cosi vicini ma, in quel breve istante, irraggiungibili. L’armatura lo avrebbe ben protetto ma il suo volto era scoperto ed indifeso.

Le dita di Lilith lasciarono la corda dell’arco; la saetta volò nell’aria come un uccello rapace. Baffodoro fece una manovra poco ortodossa per un cavaliere ma si salvò: praticamente si lanciò giù dal cavallo e rotolò per un paio di metri mentre le borchie metalliche dell’arma­tura torturavano il suo corpo. Si rialzò rapidamente e brandì la spada.

Ma l’arma era pesante, la corazza pure e lui era ormai a piedi senza possibilità immediate di risalire a cavallo. Fece un passo verso la ragazza e gli parve di avere tutta Linx con le sue mura e le sue alte torri sulle spalle. Ansimò forte.

Lilith avrebbe potuto sorridere per sfida o per compassione ma non lo fece. Non si sorride quando si sta per uccidere un uomo. Estrasse dalla faretra un’altra freccia e la sistemò nell’arco. Baffodoro si mosse verso di lei il più velocemente possibile. Essa indietreggiò un po’ e lasciò partire il secondo dardo. Fu un tiro abbastanza impreciso; colse Baffodoro sulla parte anteriore della coscia, giunse a contatto del ferro e lo scavò cercando caparbiamente la carne. La raggiunse appena, frenato dall’armatura, e graffiò Baffodoro come avrebbe potuto graffiarlo la spina di una rosa. Ma il giovane si chinò su se stesso esagerando il colpo ricevuto. Lilith si tranquillizzò, incoccò un’altra freccia e fece un passo verso di lui. Baffodoro scattò come era scattato verso il Conte Duca due giorni prima e protese disperatamente davanti a sé la sua spada. Essa divelse dalle mani della ragazza l’arco ma non si fermò e corse ancora e raggiunse la pelle di seta di Lilith e corse ancora quasi di sua autonoma volontà ed una ragazza dai capelli leggeri come la schiuma di mare cadde senza un grido e le amazzoni divennero undici… e Baffodoro pianse, pianse a lungo mentre la seppelliva e pianse ancora mentre risaliva a cavallo e si inoltrava sempre di più nella Valle Lunga, sotto un sole che gli seccava le lacrime negli occhi e il sangue nel cuore.


 

Il giovane durante il suo viaggio di iniziazione è giunto a contatto con la donna e questo primo incontro ha assunto per lui, come spesso accade nel corso del primo manifestarsi del sentimento amoroso, un carattere di conflittualità acuta.

Il bimbo infatti, per fare un semplice esempio, tira i capelli alla bambina dalla quale è attirato e situazioni più o meno simili si verificano spesso nei verdi anni dell’infanzia. In definitiva, instaurare un rapporto conflittuale è uno dei modi per attirare l’attenzione dell’altro, per creare un contatto reale. Ma l’interazione che viene a stabilirsi tra Baffodoro e Lilith ha un risultato infausto: il giovane, inesperto nell’uso della spada, uccide la ragazza. Ciò esemplifica il fatto che spesso nei primi rapporti tra ragazzi e ragazze l’inesperienza e l’immaturità possono portare alla fine di relazioni che con un po’ più di attenzione e di reciproca comprensione sarebbero potute giungere a risultati significativi.

Altre chiavi di lettura dell’episodio potrebbero essere le seguenti: il disconoscimento dell’amore, il fatto che talvolta non volendo si può causare del male a chi si ama, il fatto che l’amore va ricambiato se no, prima o poi, si viene puniti.

La prima interpretazione si basa sul concetto del “disconoscimento dell’Amore”; il protagonista ha solo una vaga percezione del sentimento che è nato in lui per la ragazza. La piena consapevolezza di questo amore si avrà solo dopo che lui l’avrà persa. Se egli si fosse reso conto in tempo della profondità dell’affetto che aveva per lei, non avrebbe agito come in effetti ha agito ma avrebbe cercato (uscendo di metafora) di preservare il suo rapporto con la Donna.

La seconda chiave di lettura non ha bisogno di molti commenti; se si vuole averne un esempio pregnante si leggano le stupende pagine del Tasso sull’uccisione di Clorinda da parte di Tancredi.

La terza interpretazione viene a nascere dalla considerazione che, in effetti, se Lilith avesse riconosciuto l’embrionale affetto che era nato in Baffodoro per lei e lo avesse ricambiato, evitando di prenderlo a frecciate, essa non sarebbe morta.

Infine, possiamo dire che talvolta l’Amore entra in conflittualità col Dovere e che in questi casi, per un uomo retto ed innamorato, la scelta è sempre dolorosa.

Baffodoro ha scelto il Dovere; vediamo un po’ dove arriverà.


La Valle Lunga si andava stringendo sempre di più; infine essa si ridusse ad una strozzatura di una decina di metri incassata tra i monti. Al centro della strozzatura stava il Drago.

Baffodoro lo vide e deglutì quasi con violenza mentre il suo respiro si bloccava ed il sangue gli fuggiva dal cuore. Ma dopo qualche istan­te di smarrimento il giovane strinse le briglie al suo destriero ed avanzò verso il mostruoso animale.

Il Drago aveva un’età indefinita; pareva aver vissuto millenni ma la sua vitalità non si era dispersa e lo permeava ancora tutto. La curiosità brillava negli occhi inumani alla vista del cavaliere che stava venendogli incontro. Si sollevò in tutta la sua immensa mole e mosse un passo verso Baffodoro. La valle rimbombò tutta di quel passo e qual­che macigno millenario perse in quell’istante e per sempre il suo precedente equi­librio e precipitò lungo i pendii scoscesi delle montagne. Dalle fauci del Drago uscirono delle fiamme e poi alcune parole pronunciate con una voce stranamente chioccia e sibilante:

“Chi sei, straniero?”

Il giovane sollevò la visiera dell’elmo e rispose sforzandosi di assumere un tono dignitoso ma si sentiva morire le parole tra le labbra:

“Il mio nome è Baffodoro e vengo da Agedor. Sono venuto per…” e qui la sua voce si ruppe per un istante, poi decise di non mentire “… per uccidere la Sacerdotessa Maggiore del Tempio.”

Il Drago fece una strana smorfia e strusciò più volte la lunga coda nella sabbia.

“E perché, Baffodoro di Agedor, vuoi commettere questo sacrilegio? E’ amore di gloria o di ricchezza che ti spinge a ciò?” chiese perplesso il mostro. Le ricchezza di Linx ed il vano amore di gloria non sono poi delle motivazioni troppo nobili per un cavaliere, pensò Baffodoro, quindi rispose:

“La mia spada ed il mio cuore sono spinti dall’amore per la Giustizia e per la bella e dolce Uriel, figlia del Signore di Linx.”

Il Drago sbottò in quella che potremmo definire una risata; la sua coda si mise ad oscillare imitando lo scodinzolare dei cani. La bestia chiese divertita:

“Ma l’hai mai vista tu, Cavaliere, la bella e dolce Uriel?”

“Forse non è bella e forse non è dolce la figlia del Conte Duca” pensò Baffodoro “ma che diritto ha questo animale di giudicare una femmina umana?”. Quindi rispose:

“Drago, pensa a salvare la tua vita. E’ bello ciò che piace e l’amore è cieco.”

“Uh, certo!” Ridacchiò la bestia. “I gusti son gusti ma tu hai dei gusti ben perversi, cavaliere.­”

“Perversi? Cosa intendi per ‘perversi’?” Domandò Baffodoro sbigottito; non era certo così che si era immaginato il suo incontro col Drago.

L’animale continuò a motteggiarlo:

“E come dovrei definirli, Cavaliere? Non è cosa comune che un sì folle amore sia ispirato da una bimba di sette anni…”

A Baffodoro parve che tutte le montagne che cingevano la Valle Lunga gli fossero precipitate addosso. Restò senza parole. Il Drago continuò.

“E’ evidente che tu non hai mai visto la dolce Uriel, Cavaliere… Per quel che riguarda il tuo amor di Giustizia, nutro gli stessi dubbi che provavo sul conto del tuo sentimento per la figlia del Conte Duca: come puoi definirti giusto se intendi aiutare il Tiranno di Linx a realizzare i suoi abietti scopi?”

Il tono di Baffodoro si fece sarcastico e duro:

“Come puoi definire un abietto scopo l’impedire il sacrificio umano, l’uccisione per i vostri dei di Leyra, la figlia del Siniscalco ora moglie del Conte Duca?”

Il Drago restò perplesso.

“Che dici, Cavaliere? La bella Leyra aveva la Vocazione, voleva diventare Ancella del Tempio ed il suo avido padre ed il lussurioso Conte Duca le hanno impedito di farlo e le hanno imposto un matrimonio di interesse. Per questo la Sacerdotessa ha lanciato il suo incantesimo su Linx; per costringere il Conte Duca a lasciare libera Leyra di seguire la sua vocazione e di venire qui al Tempio a servire gli Dei.”

Baffodoro sospirò forte, poi disse seccamente:

“lo ho una versione diversa dei fatti…” strinse i denti, si calò la visiera ed impugnò la lancia. “… Mi fido del Conte Duca.­”

“Ed io della Sacerdotessa del Tempio.” Rispose il Drago divertito.

Baffodoro sudava ed attraverso le strette feritoie della visiera osservava l’immane animale. Guardava le scaglie impenetrabili che lo rico­privano completamente e le unghie affilate e dure come l’acciaio e le fauci fiammeggianti e la coda spinosa e le zampe pronte a balzare ed a colpire. Guardava tutto questo e si sentiva mancare e si chiedeva chi aveva ragione e se stava combattendo per la Verità e se sarebbe morto quel giorno. Infine, lentissimamente lasciò cadere la lancia e si spogliò dell’armatura. Girò il destriero e corse verso l’uscita della valle. Piangeva. Il Drago, dall’alto dei suoi millenni di vita, vide tutto ciò e bonariamente sorrise.

Era il tramonto ed il sole pareva ferito a morte quando Baffodoro raggiunse al galoppo la capanna del vecchio. L’anziano contadino stava zappando la terra dura ed avara; alzò lentamente la testa, lo vide, sorrise, quindi la riabbassò, sempre continuando a zappare.

Baffodoro estrasse dal fodero la spada ancora lorda del sangue della dolce Lilith, unica arma che avesse conservato. Si avvicinò al conta­dino; gli parlò:

“Vecchio; tu mi hai ingannato.”

L’altro annui continuando nel suo lavoro.

“Dunque la bella Leyra non era destinata ad un sacrificio umano; aveva la Vocazione e…”

Il vecchio sollevò la testa e smise di zappare.

“La bella Leyra non c’entra niente con tutto questo” e con un ampio e lento gesto del braccio indicò la desolazione e la siccità che lo circondavano. Poi proseguì: “Il Conte Duca e la Sacerdotessa sono in disaccordo su alcuni tributi che da sempre Linx paga al Tempio.”

Il giovane mormorò:

“Ed allora perché sono state inventate queste storie?”

Il vecchio accennò nuovamente alla desolazione che si stendeva sul paese.

“Tu credi che il mio popolo sopporterebbe tutto questo per qualche migliaio di ducati in più o in meno all’anno?”­

Baffodoro capì e strinse forte la spada assassina.

“Io ho ucciso per questo; ho ucciso una donna che avrebbe potuto significare molto per me. Perché ingannasti anche me, vecchio?­”

E lo urlò quasi, iniziando lentamente a sollevare la sua arma.

L’altro rispose tranquillo:

“Tu sei giovane; hai bisogno di una causa giusta per cui combattere, hai bisogno di illusioni… Sei giovane, tu.”

Baffodoro alzò la spada e con tutte e due le mani la portò al di sopra della propria testa. L’altro non accennò a difendersi. Baffodoro vide le ma­ni callose e i vestiti strappati del vecchio, pensò a Lilith ed al sangue di lei seccatosi sulla lama, guardò i campi duri e polverosi e l’acqua fangosa e si chiese quanti anni ancora avrebbe potuto sopravvivere il contadino e quanto sudore avrebbe versato sapendo che tutto era per poche misere migliaia di ducati d’oro. Fu così che gettò a terra la sua spada e fuggì via, lasciando il vecchio al suo destino.


 

Gli schemi tradizionali della favola sono in queste ultime due parti completamente e definitivamente sconvolti. In particolare, qui si nega un assunto basilare della struttura ideologica della fiaba: si nega, infatti, la possibilità di distinguere nettamente i “buoni” dai “cattivi”. In effetti, le favole sono espressione di un mondo ormai scomparso, un mondo medievale dogmatico e fiducioso in alcune sue grandi certezze, un mondo i cui schemi ideologici non erano ancora stati incrinati dalla negazione del principio di autorità e dalle teorie relativistiche. In definitiva, un mondo in cui ogni cosa aveva un suo posto ben definito e costante ed una propria classificazione morale chiara ed esplicita. Cosicché, nella trasfigurazione fantastica noi abbiamo necessariamente dei ruoli che potremmo definire “standard”: l’eroe buono, il Drago ed il Cavaliere Nero cattivi, la Fanciulla dolce ed indifesa. Invece qui, con un rovesciamento della situazione proprio della cultura moderna, l’eroe, al momento di affrontare la prova suprema, esamina le motivazioni ideologiche fornitegli dalla propria società (che è qui rappresentata dal Conte Duca e Linx) e le confronta con quelle dell’avversario arrivando sgomento a concludere che egli non può stabilire a priori che le sue siano necessariamente le più valide. Poi, indagando a fondo, egli viene a conoscere che tutte le ideologie non sono altro che imposture adottate per far accettare al popolo certe dinamiche politiche e militari il cui reale movente è soltanto economico. Dunque risulterebbe che le Idee non sono altro che giustificazioni “a posteriori” dei fatti; ovvero, che sono i fatti a crearle. A questo punto si potrebbe aprire un vasto dibattito sul rapporto idea-azione; rapporto risolto in maniera totalmente diversa da due correnti di pensiero: quella “materialista” che afferma più o meno quanto precedentemente esposto e quella “idealista” che sostiene il contrario, asserendo che sono le Idee a determinare i cambiamenti nella Storia e la dinamica dei fatti in generale. Ma tale dibattito spazierebbe troppo in largo, coinvolgendo campi e tematiche che esulano dall’argomento che stiamo trattando: vale a dire, la fiaba. Allora, limitiamoci ad indicare ed esplicitare un altro paio di concetti che possono essere individuati in questi due brani del racconto: innanzitutto avvertiamo nell’autore una profonda sfiducia nella propaganda ufficiale (ci pare evidente tale aspetto, soprattutto alla luce di quanto detto in precedenza) e poi la triste coscienza della drammatica situazione dei giovani giunti in un mondo che ha ormai eliminato le proprie certezze. Le generazioni che si affacciano alla vita al giorno d’oggi sanno di non avere in mano la Verità assoluta e questo limita in maniera notevole il loro slancio ed entusiasmo. Le generazioni di un tempo giungevano a queste conclusioni in età più matura ed avanzata con risultati forse maggiormente traumatici ma perlomeno vedevano risparmiata la loro giovinezza. Dunque, i giovani d’oggi giungono ben presto ad affacciarsi alla società, adesso essenzialmente materialista, smaliziati ma privi di quella carica ideale e forse rinnovatrice che caratterizzava quelli di un tempo. Ciò é un bene od un male?

E, soprattutto: non è che queste stesse considerazioni le facessero anche i giovani di cinquanta o cento o mille anni fa parlando dei propri nonni?


Le tristi ed aride contrade di Linx erano ormai alle sue spalle; il vuoto gli aveva trafitto il cuore e riempito l’anima. E così, per cercare di colmare questo gran vuoto, Baffodoro stava bevendo in una osteria del paese di Exen, lontano mille miglia da Agedor e da Linx. Beveva e stava per ubriacarsi definitivamente quando uno straniero entrò dalla notte scura e si sedette al suo tavolo.

“Baffodoro,” gli disse “torna da tua madre; sta morendo.”

“Mia madre…” e la voce di Baffodoro si fece tristissima ” …io non conosco mia madre.”

“Ma come?!” fece lo straniero perplesso “E la tua vecchia di Agedor?”

“Ma quella non è mia madre.”

Gli occhi del Viaggiatore brillarono cattivi nell’oscurità.

“Ah, no?” Fece con tono ironico.

Baffodoro capì e s’incamminò veloce e piangente nella notte.

La notte era scura e la luna non rideva più quando Baffodoro giunse alla sua casetta di Agedor. Sulla soglia lo attendeva una piccola folla di amici della vecchia morente. Scese da cavallo ed il fornaio del villaggio lo guardò sconsolato.

“Ti aspettavamo, ragazzo. Sta morendo, ne avrà ancora per poco.”

Baffodoro non trovò la forza per rispondergli e si precipitò nella capanna. Le donne che piangevano attorno al letto della malata, appena lo videro, si scostarono e lo lasciarono solo con lei.

La vecchia si sollevò dal suo giaciglio e lo guardò dolcemente. Lui chinò il capo e pianse, poi le chiese:

“Perché? Perché mi hai mentito, madre?”

“Figlio mio,” rispose lei lentamente “ho dovuto farlo. Se ti avessi detto la verità tu, come tutti gli altri, non ti saresti mai allontanato dalla vita squallida ed abitudinaria di Agedor. Cosi, invece, ti ho donato la spinta verso orizzonti e prospettive nuove, verso un futuro brillante. Ma tu…” e qui la vecchia sospirò, ansimante “… ma tu hai capito tutto. Spero solo che non sia stato totalmente inutile.”

“Madre,” pianse il giovane “chi è stato mio padre?”

La donna si abbandonò lentamente sul letto ed i suoi occhi si persero sognanti a fissare il consunto soffitto in legno che ricopriva la capanna.

“La vita è banale.” Fece lei. “Tuo padre era un uomo come tanti, con i suoi piccoli difetti e le sue modeste virtù. Non era niente di particolare tuo padre… Per me lo era, invece, e lo sarebbe stato anche per te ma… ” la sua voce si affievolì sempre più e Baffodoro trattenne il respiro timoroso “… ma morì prima che tu nascessi ed ora… ora muoio anch’io… Vattene da Agedor, figlio.”

Le lacrime si inaridirono, dopo ore di dolore, negli occhi di Baffodoro. Sedeva sulla soglia della capanna e guardava lentamente le tenebre diradarsi. I conoscenti se ne erano andati tutti dopo la lunga notte di veglia ed erano restati solo il fornaio e sua figlia, Ethel. L’uomo si chinò su Baffodoro e gli parlò dolcemente.

“Cosa hai intenzione di fare, ragazzo?”

Baffodoro scosse la testa; sua madre gli aveva detto di andare, ma dove? L’altro continuò:

“Sono vecchio, ormai, ed il lavoro nel forno è pesante. Se vuoi puoi restare a lavorare per me…”

La giovane figlia del fornaio gli sorrise; il sole mostrò sopra i monti il suo disco d’oro e le vie di Agedor si illuminarono a poco a poco di quella luce chiara.

Baffodoro si alzò, pensò a Lilith ed ad Linx, ambedue splendide e cento volte migliori del suo villaggio e di Ethel. Ma Lilith e Linx forse erano solo sogni e non sarebbero più tornati mentre la polvere di Agedor gli scricchiolava sotto i piedi e sarebbe bastato allungare la mano per cingere i dolci fianchi della piccola Ethel.

Sua madre forse aveva sbagliato tutto; allungò quella mano e camminò a testa alta nella cittadina desolata.


E’ la fine; le strutture formali ed ideologiche della fiaba tradizionale sono qui completamente divelte ed annullate. L’autore, infine, ci espone esplicitamente le sue idee che sempre, però, avevano permeato il racconto dandogli una specie di sottofondo amaro e pessimista: la gloria, le grandi avventure, fors’anche i grandi amori sono elementi importanti nella vita di una persona ma solo se li consideriamo sotto forma di aspirazioni ideali, di desideri da realizzare, di molle che spingono l’uomo ad agire. In realtà portare a compimento queste grandi idee è appannaggio di pochi mentre gli altri devono saper distinguere tra Ideale e Reale ed ad un certo punto optare per il realizzabile Reale (come fa Baffodoro scegliendo di restare nel suo villaggio con Ethel) poiché se una persona restasse prigioniera di queste grandi illusioni, impossibilitata com’è generalmente a realizzarle, proverebbe, al momento di fare un bilancio della propria vita, delusione ed inappagamento. In definitiva, l’autore ci dice che bisogna crearsi sempre della illusioni, ma non crederci mai. Fors’anche che bisogna rifugiarsi nel quotidiano e nella famiglia ed evitare di esporsi troppo nella vita pubblica (che per Baffodoro sarebbe l’essere Cavaliere ed errare in cerca di gloria). Ma se tutti avessero seguito scrupolosamente le indicazioni dell’autore, il mondo sarebbe giunto al suo attuale stato di progresso? Avrebbe l’uomo calpestato le morte polveri seleniche ed esplorato gli abissi marini?

Probabilmente no.

Probabilmente.


Baffodoro ed Ethel vissero… né troppo felici, né troppo contenti.

Semplicemente, vissero.

La fiaba è finita.

Sergio Calamandrei

Sergio Calamandrei: vivo a Firenze, dove pratico il prosaico mestiere di commercialista. Mi appassionano scrittura, storia e letteratura. Per saperne di più: www.calamandrei.it/chi-sono-sergio-calamandrei/

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