SM0 L’unico peccato: incipit ed estratti
INCIPIT ed ESTRATTI da SESSO MOTORE ZERO: L’UNICO PECCATO
1 – Firenze. Dove una storia comincia e una finisce
Firenze un tempo era tutta fatta di strade strette come quella in cui sto camminando. L’odore acre dell’urina di qualche ubriaco mi ricorda come dovevano essere nel medioevo questi antichi vicoli. Allora, passeggiando, si doveva stare attenti che nessuno dalle finestre gettasse nella via rifiuti ed escrementi. Immagino che tutti camminassero col naso all’insù e gli occhi bene aperti. Forse avrei fatto bene a fare la stessa cosa ma come potevo immaginare quello che stava per cadermi addosso?
Siamo agli inizi degli anni Novanta, in uno dei primi giorni di marzo quando a Firenze fa ancora un freddo terribile e si comincia soltanto a intravedere lontano qualche lieve speranza di una stagione migliore.
Alla mia età soffro d’insonnia e tutte le sere faccio un giro che parte da Piazza del Duomo, corre attraverso Piazza Signoria e Piazza della Repubblica e poi si perde nelle stradine che si nascondono dietro Palazzo Strozzi. Il fiume lo traverso di rado. L’Oltrarno è quasi un mondo a sé, dove mi sento straniero. Spesso l’osservo da lontano, appoggiato alla balaustra del Lungarno. Ogni tanto guardo verso il basso. L’Arno di per sé non è che sia poi un gran bel fiume. Perlomeno quando attraversa Firenze.
A dire il vero, io conosco solo quel tratto e non posso escludere che in altri punti abbia un aspetto migliore. Io ci ho fatto il “canottiere” in Arno, ai tempi della mia gioventù. Ero tra quelli che, fluidi e leggeri, sfrecciavano vogando sotto il Ponte Vecchio. Speravo sempre che sul ponte, quando passavo io, non ci fossero ragazzi in vena di scherzi e occhieggiavo per vedere che nessuno si stesse apprestando a prendermi di mira e a tirarmi qualcosa in testa. Non pensavo che avrei dovuto far lo stesso anche sulla terraferma.
Tornando all’Arno, se dovessi attribuirgli un aggettivo lo definirei “limaccioso”: c’è poca acqua e quella poca scorre lenta. Oserei dire che l’Arno sembra un fiume vero solo quando le piogge lo gonfiano tanto che pare straripare; in fondo non è altro che un grande ruscello e di per sé non sarebbe niente di speciale.
Ma diventa splendido perché su di lui si affaccia Firenze.
Non so se avete mai provato ad appoggiarvi coi gomiti sulle balconate di uno dei ponti della mia città in un chiaro pomeriggio di primavera.
Se lo avete fatto mi capirete.
La luce ha una trasparenza dolce e calda. I bei palazzi signorili si adagiano sui Lungarni senza superbia e tutto pare armonico e naturale e inserito alla perfezione nel verde anfiteatro delle colline.
Mi dà una sensazione di pace, tutto ciò.
Io penso che sia in momenti come questo che si riesce a intuire i segreti legami tra le cose e come tutto, in fondo, abbia una comune origine e goda dell’essere parte di una nascosta armonia. E anche noi ci rendiamo conto di essere un elemento di quel tutto e di quell’armonia e siamo contenti per un istante perché per un istante ci è parso di avere un senso e uno scopo.
Anche quella sera di marzo avevo fatto pensieri del genere e camminavo pensando di essere quasi felice.
Sono cose che non durano.
A un certo punto, sentii un rumore leggero sopra di me e alzai la testa. Feci appena in tempo a scorgere una massa scura che mi stava precipitando addosso. Ora so che era un povero figliolo di nome Simone, e che veniva giù dal quinto piano. Una sua coscia mi ruppe l’osso del collo. Morimmo entrambi quella sera. L’ultima cosa che ricordo è l’odore forte di urina che permeava il vicolo.
2 – Firenze. Dove una storia comincia e una finisce
Ormai era notte. Il poliziotto stava immobile di fronte al cancello. Oltre la siepe, le finestre della villetta erano buie. Tutta la zona era avvolta nel silenzio, inframmezzato soltanto dal tenue rumore della pioggia. Il cognome sul campanello era quello: “Berti”. Restava solo da premere il pulsante. Eppure l’uomo stava fermo con le piccole gocce di acqua che gli colavano sul viso. Odiava quei momenti. Avrebbe preferito cento volte doverlo sfondare, quel cancello, ed entrare con la pistola in pugno e il cuore impazzito ad arrestare un latitante, col rischio di ricevere una pallottola in corpo. Si voltò, lentamente. Il collega, seduto nell’auto parcheggiata con le luci accese, lo guardava. “Certe cose non si possono dire per telefono” pensò “il mio mestiere è anche questo.” Suonò il campanello. Per un po’ non accadde niente e lui sperò che non ci fosse nessuno in casa. Poi una voce brusca nel citofono gli chiese chi era.
– Sono l’ispettore Melani. Polizia… Devo parlare col signor Bruno Berti.
Nessuna risposta. Poi la serratura del cancello si aprì con un secco scatto metallico. Melani si voltò ancora verso il collega, respirò profondo ed entrò nel giardino. Il portone della villetta si spalancò. Contro la luce dell’ingresso apparve una figura massiccia. Quando il poliziotto giunse sotto il piccolo portico vide che era un uomo sui sessanta anni, con gli occhi spalancati e un’espressione ostile, avvolto in una vestaglia marrone.
Si guardarono per qualche secondo in silenzio. “Prima si comincia e prima si finisce” pensò.
– Sono l’ispettore Melani… Lei è il padre di Simone Berti?
Gli occhi dell’uomo si spensero, mentre annuiva.
…Omissis…
8 – Domenico (Arturi). Dove l’investigatore conosce il padre del morto
Fuori pioveva.
L’umidità permeava ogni cosa, quel giorno. Persino le mie sigarette facevano fatica ad accendersi. Il signor Bruno Berti stava apparentemente guardando oltre la finestra, volgendomi le spalle.
In realtà sapevo bene che il suo sguardo si era perso tra tutte quelle gocce di pioggia rincorrendo un’immagine cara.
Ora stava in piedi, con le braccia incrociate dietro la schiena e si sforzava di non piangere. Doveva essere una cosa insolita per lui ritrovarsi in quello stato. Era il tipo di uomo che, dopo l’infanzia, piange al massimo quattro o cinque volte nella vita. Quando piangono però vanno avanti degli anni, perlomeno dentro di loro.
La sua faccia tonda e larga era indurita da due occhi scuri che ti fissavano decisi facendoti sentire sotto esame (un esame che stavi fallendo). La corporatura era massiccia, rivestita con abiti costosi ma che non riuscivano a cadere bene. Un contadino, veniva da pensare, ma in realtà possedeva una piccola industria di componenti meccaniche messa su, com’era prevedibile, partendo dal nulla. Avevo preso le mie solite informazioni. Era in grado di pagarmi.
Mi aveva fatto sinora tutta una serie di imbarazzati discorsi sui problemi dei giovani e sulle difficoltà di essere capofamiglia.
Sospirai e morsi la sigaretta; conoscevo quei momenti, quando occorre essere duri e forti per impedire agli altri di vederci in tutta la nostra fragilità. Sono un esperto in quel genere di cose; nel mascherare i sentimenti. Chiedetelo pure al mio stomaco e alla gastrite che mi sto coltivando.
Finalmente il signor Berti riprese a parlare:
– Quel ragazzo che si è buttato da una finestra la settimana scorsa era mio figlio.
Lo sapevo.
Appena mi aveva telefonato per fissare un appuntamento e mi aveva detto il cognome, mi ero ricordato degli articoli su quello studente universitario di un paese vicino a Como, Simone Berti, che aveva ammazzato un vecchietto, precipitandogli addosso. Una brutta storia. Nel mio mestiere è importante avere una buona memoria.
– Mi dispiace, signor Berti.
Evitai deliberatamente qualsiasi frase di conforto. Odio quando dico “Bisogna farsi forza” e l’altro scoppia in lacrime.
Mi andò bene; l’uomo si voltò, raggiunse la mia scrivania, ci si appoggiò con le palme delle mani e si sporse verso di me.
– Si è suicidato. Voglio sapere come mai. Prima di gettarsi ha spedito questo messaggio di posta elettronica a una quarantina di persone. L’ha mandato a cani e porci, ma a me no. Comunque, questa lettera non dice nulla; io, invece, voglio capire perché l’ha fatto.
Mi sbatté un foglio sul tavolo. Trattenni il respiro per evitare di soffiargli tutto il fumo in faccia. Lessi il messaggio. Scritto bene, ma in effetti non spiegava molto. Mi appoggiai allo schienale della poltrona e mi rilassai cercando di manifestare un’aria di estrema sicurezza. Soffiai fuori il fumo e feci uno sguardo duro, molto professionale.
– Lei mi affida un incarico difficile, signor Berti. Un investigatore di solito viene chiamato a ricostruire o a provare un ben determinato fatto materiale, che so, un furto o un tradimento, le cui motivazioni in definitiva interessano ben poco o sono fin troppo chiare. E accertare gli atti materiali, con un po’ di esperienza, non è difficile. Nel nostro caso il fatto materiale purtroppo è già accaduto e niente esso ci può dire sulle motivazioni che lo hanno originato. Io dovrei riuscire a penetrare nell’animo di suo figlio per sapere come mai ha deciso di farla finita, ma già è difficile capire una persona viva con la quale puoi parlare, figuriamoci una che non c’è più. Rischio di arrivare alla fine di questa mia indagine avendo raccolto solo qualche vaga impressione o sensazione, oltretutto non documentabile in alcun modo.
– Sta cercando di dirmi, signor Arturi, che la sua opera mi costerà molto e forse non porterà ad alcun risultato?
Annuii.
– Non importa – continuò il Berti – sono venuto da lei perché è il migliore qui a Firenze; ricordo bene il caso Serrai. I soldi non sono un problema. Adesso che mio figlio è morto non so che farmene, dei soldi.
Annuii di nuovo. Visto il complimento che mi aveva fatto e la disperazione di quest’uomo pensai per un istante di concedergli uno sconto sulla mia tariffa ma respinsi subito, senza troppa fatica, la tentazione.
– Va bene – feci – si sieda, la prego.
Tutto quel suo passeggiare di fronte alla mia scrivania stava cominciando a innervosirmi. Decisi di cominciare subito.
– Mi dica di suo figlio, signor Berti.
L’uomo abbassò lo sguardo. – Il suo compagno di appartamento ha raccontato che Simone negli ultimi tempi era molto depresso e angosciato. Si era bloccato del tutto negli studi. Con la famiglia… – e qui si interruppe un istante, come per cercare le parole – con la famiglia non aveva buoni rapporti. Era un bravo ragazzo e non frequentava giri strani.
– Era solo in casa, la sera che si è ucciso?
– Sì. Ha inviato quel messaggio via e-mail pochi istanti prima di gettarsi. Non si è neanche accorto che passava sotto quel disgraziato. Anche se gli accertamenti sono ancora in corso, il commissario Federici è certo che si sia suicidato.
“Federici” pensai “proprio lui”.
Sbuffai e chiesi: – E lei che ne pensa di tutta questa storia?
L’uomo alzò la testa e mi fissò negli occhi.
– Cosa vuole che ne pensi? Non ho capito nulla di mio figlio e non so neanche se e dove ho sbagliato. Ora voglio capire. La pago per questo. E la pagherò bene.
Annuii ancora e mi parve di annuire un po’ troppo. Mi feci dare il nome del compagno di appartamento di Simone e altri dati che ritenei utili, oltre a un congruo acconto. Poi lo congedai. Mentre stava per uscire gli chiesi un’ultima cosa.
– Suo figlio, signor Berti, faceva uso di droghe o alcolici?
– Lo escludo nel modo più assoluto! Simone non fumava neppure.
Annuii per l’ultima volta.
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