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ALICE, BARBARIGO e tutti gli altri  

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Questo racconto fa parte dell'antologia ALICE, BARBARIGO E TUTTI GLI ALTRI

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Sono Andrea  Barbarigo, figlio di Niccolò, Mercante di Venezia.

La mia vita profuma di spezie e di salsedine.

Dal ponte della galea spio orizzonti che continuamente mi sfuggono; i rematori infaticabili spingono questo legno per le infinite rotte mediterranee. Talvolta ho superato le colonne d'Ercole per commerciare nelle ricche fiere di Bruges e delle Fiandre.

Lavoro per arricchire la mia patria e mi arricchisco con lei; le onde martellano il mio fisico e presto sarò vecchio ma le mie figlie avranno una dote degna di un doge.

Sono un uomo e sono tutti gli uomini.

 

"Forza, miei vichinghi, correte incontro alla morte prima che qualcun altro rubi il vostro posto," urla il nostro capo. Gridiamo con tutto il fiato che abbiamo, agitiamo le spade e gli scudi e poi ci lanciamo contro i nemici che stanno correndo verso il nostro villaggio. Ci superano di quattro volte in numero ma noi uomini del nord non conosciamo la paura e moriamo quando c'è da morire. Ecco che inizio a combattere. La mia spada si arrossa. Sono forte e non temo niente. Non mi accorgo nemmeno della prima ferita, e neanche della seconda. Combatto per difendere il mio villaggio e perché l'onore di un uomo è nel suo braccio. Urlo quando mi infilano una spada nel fianco. Urlo e li invito a colpirmi ancora. Ormai non riesco più a tenere sollevato lo scudo e lo lascio cadere. La mia lama continua ad abbattersi sui nemici. Sento un rumore forte nelle orecchie, come il mare in tempesta; mi pare che tutto quel che vedo si appanni di un colore rosso. Sento il corno dei nemici che suona la ritirata, li vedo fuggire ed urlo ancora. Il villaggio è salvo. Torno verso le capanne ma quei pochi metri paiono non finire mai. Sto morendo e non ho ancora un figlio. Arrivo di fronte alla mia promessa sposa che mi guarda in silenzio e poi inizia a stracciarsi la veste per ricavarne delle bende. Scuoto al testa e la prendo per un braccio. La trascino all'interno di una capanna. La distendo per terra e le monto sopra. Le donne del mio popolo non piangono mai ma ora lei piange mentre la prendo e nel farlo la inondo del sangue che cola dalle mie ferite. Forse non sarebbe stata una buona moglie. Non importa; la tempesta nelle orecchie adesso non ha tregua e vedo solo rosso. Ora posso morire. Avrò un figlio.

Sono un uomo e sono tutti gli uomini.

 

Sono il sottotenente di vascello Domenico Toschi del sottomarino Invicto della Marina reale italiana. Non posso vederla, perché le luci sono spente, ma stringo in mano la foto di mia figlia. E' nata che la guerra era già cominciata. Due anni e non ho ancora avuto modo di tenerla tra le braccia. Chissà che effetto fa? Non lo saprò mai. Il mio amico Davini sta pregando. Mormora le parole così in fretta che non riesco a capire di quale preghiera si tratti. Forse non ricorda bene, forse sta inventando. Io, invece, resto in silenzio e stringo la tua foto. Mi chiedo se sarai felice. Mi chiedo cosa penserai di me, quante volte ti mancherò. Mi sento in colpa perché sto morendo e questo ti farà male per sempre. Non c'è cosa che desideri quanto la tua felicità. Sarei disposto a dare la vita per questa. Ma della mia vita, ormai non dispongo più. Spero che non ci diano per dispersi, meglio che sappiate subito che siamo morti. Affondati da un cacciatorpediniere inglese vicino alla costa di Rodi. Forse ti chiederai se mi sono accorto che stavo morendo oppure no. Ho avuto già mezz'ora per morire; adesso qui, incagliati sul fondo, ci resteranno ancora cinque o dieci minuti di aria, o forse le paratie cederanno prima. Sommerso sotto tonnellate d'acqua, chiuso tra queste strette pareti di latta, è il buio che non sopporto, è il non poterti rivedere per un'ultima volta. Stringo la tua foto tra le mani e spero che tu non salga mai su un sommergibile. Perché allora potresti capire quello che sto passando. Ti amo figlia mia, dopo tanti sogni sei l'unica cosa concreta che lascio. Non posso scriverti, posso solo sperarti.

Sono un uomo e sono tutti gli uomini.

 

Non conosco il mio nome, non conosco mio padre.

La gente tra cui vivo mi chiama Pablo oppure mi urla dietro; allora qualche volta mi fermo e mi volto. Sono della Favela Grande, vicino a quella città che voi chiamate Rio de Janeiro. Sto morendo di aids a tredici anni, non ho niente, di me non resta niente ma Rosa è incinta e forse un goccio del mio sangue sopravviverà. Mio figlio e il figlio di mio figlio moriranno giovani e disperati come me ma un giorno un mio lontano discendente comporrà una poesia che resterà nella memoria del mio popolo. Allora io vivrò in eterno.

Sono un uomo e sono tutti gli uomini.

 


 

“Perché viviamo?” mi chiede mia figlia Alice. Sta per compiere diciassette anni. E’ la luce dei miei occhi. E’ buona, brava, bella; io e mia moglie la adoriamo. Ogni tanto, però, è un po’ una rompiballe.

“Qual è il senso della nostra vita?” insiste. “Perché dovrebbe avere un senso? Non potrebbe essere come quella delle pecore, delle mucche, dei maiali, che nascono, vivono e muoiono senza creare nulla?”

Ma noi abbiamo un’anima, mi verrebbe da rispondere ma mi rendo conto che come risposta non è che dimostri troppo. Nessuno l’ha mai vista, l’anima, e nessuno può escludere che anche le mucche l’abbiano.

“Chi l’ha detto che noi siamo diversi dai maiali?” continua mia figlia, “chi guardasse dal di fuori la razza umana, chi studiasse nel medievo i servi della gleba, o, diciamo pure adesso i contadini, gli operai, gli impiegati, come potrebbe considerarli diversi dagli animali. Esseri che nascono, campano e muoiono e nella maggior parte dei casi lasciano dietro di loro nulla, o almeno cose che un osservatore esterno faticherebbe ad individuare.”

“Magari se entrassi nel cervello di un maiale,” rispondo, “potresti avere enormi sorprese. Forse adesso, grazie alle concentrazioni di esemplari raggiunte negli allevamenti intensivi, i suini stanno facendo progressi incredibili in campo filosofico, l’unico che gli interessi, l’unico nel quale si esprimano.”

Alice ride, poi si rabbuia. “Vivere per essere macellati, in effetti, può essere una bella spinta ad interrogarsi sul senso della vita,” dice. Poi mi chiede di nuovo: “perché viviamo? Non mi hai risposto.”

 


  

Alice compirà diciassette anni tra tre mesi. Sta con un ragazzo di diciotto anni, Giulio. Lui sembra un tipo a posto; quando entra in casa saluta con educazione. E’ bello, alto, fa sport. Al suo fianco la mia bambina appare piccolissima. Cosa c’entra lui, con mia figlia?

Un giorno, mentre Giulio aspettava nell’ingresso che Alice fosse pronta per portarla al cinema, ho fatto l’idiozia di chiedergli: “non pensi che lei sia troppo giovane per te?”

Lui sulle prime non ha risposto, mi ha lanciato uno sguardo furbo, che voleva dire sapessi…, poi ha abbassato gli occhi. Dopo ha iniziato a tirare fuori qualche frase fatta: che si amavano, di non preoccuparsi ed altro ma io non riuscivo ad ascoltarlo. Sapessi, tua figlia… ed a quel punto pensavo solo alle statistiche che dicono che a quattordici anni non ci sono quasi più vergini, che a scuola tutti si fanno di canne e pasticche, che Alice è da un po’ che ha un bel seno. A quel punto sperai e basta: che fosse fortunata, che fosse intelligente, che non facesse cazzate grosse, che si ricordasse di quello che le avevamo insegnato. Sperai che le avessimo effettivamente insegnato qualcosa e, soprattutto, che non soffrisse. E soprattutto, che non soffrisse.

  


 

“Com’è avere una figlia?” mi chiede Serena, la mia amante, un pomeriggio di maggio in cui il sole illumina placido il letto su cui stiamo. Sempre voglia di parlare, hanno le donne, dopo, penso.

Serena stessa potrebbe essere mia figlia. Ha ventitre anni. La frequento da otto mesi, almeno un pomeriggio la settimana. E’ dolce, e morbida e soda, allo stesso tempo. Ride spesso, talvolta troppo. Probabilmente Alice è più matura ed intelligente di lei, e forse questo è il suo principale pregio; di Serena, intendo.

Voglio farle uno sgarbo, perché non mi ha lasciato giacere in pace, a non pensare a niente.

“La vita è stronza,” le dico, ”perché prima cerca di annullarti, di consumare la tua mente e la tua anima col lavoro. Tu sei lì che ti ammazzi ogni giorno e a sera non hai più tempo di pensare, di dedicarti a te stesso, di vivere. Ma questa è una cosa della quale puoi accorgerti e la puoi combattere; se hai abbastanza forza di volontà ed energia per farlo. Riesci allora a ritagliarti comunque degli spazi; fai una gran fatica, ma ci riesci. E’ a quel punto che la vita ti manda contro i tuoi figli. Nascono e ti travolgono. Contro il desiderio di donare loro tutto te stesso è difficile ed ingrato lottare. Ti senti in colpa se gli rubi del tempo per dedicarlo a te. E’ facile allora lasciarsi annullare, scomparire, permettere che ogni cosa ruoti attorno ai figli: il lavoro che fai, i risparmi che metti da parte, il posto in cui scegli di vivere. Ma ad un certo punto bisogna rendersi conto che non può essere così. Chi vive solo in funzione degli altri poi evapora e di lui non resta niente. Alla fine, magari, per questa sua inconsistenza corre anche il rischio di non essere più riamato o stimato. Mio padre pensava solo al lavoro, o, era sempre stanco, o, era sempre nervoso, tante volte hanno detto dei figli adorati da genitori che avevano rinunciato a vivere per loro. Io cercherò di insegnare a mia figlia ad essere felice, ma i migliori insegnamenti si danno con l’esempio. Quindi devo cercare io stesso di essere felice, anche se ciò vorrà dire che un po’ la trascuro e corro il rischio di farle del male, come adesso che sono qui nel tuo letto. Ma tutto questo lo faccio, in definitiva, anche per lei, oltre che per me.”

“Sì, ma com’è avere una figlia?”

Davvero Alice è più intelligente di Serena.

 


 

“Non ti pare che Alice sia un po’ strana, in questi giorni?” mi chiede mia moglie.

Smetto di leggere. “Perché strana?”

“Ma non vedi proprio quanto è nervosa?” risponde Elena, come se fosse colpa mia. “Ieri l’ho trovata in camera che piangeva.”

Quel cane, penso. “Per Giulio?”

“Non mi ha voluto dire niente. Prova a parlarci tu.”

Prova a parlarci tu. Se non si è confidata con la madre, figuriamoci con me. Ma qualche volta succede. Ci sono cose che una donna difficilmente racconta ad un’altra donna.

Vado nella stanza di Alice. E’ lì che fa i compiti. E’ troppo brava la mia bambina. Mi siedo sul letto. Da come mi guarda capisco subito che non otterrò niente.

“Cosa stai facendo?” chiedo.

“I compiti.”

Cominciamo bene, penso.

“Lo vedo, ma che compiti sono?”

“Cosa vuoi, pa’?”

Sospiro. “Va tutto bene, piccola?”

“Certo; perché?”

“Mamma ieri ha visto che piangevi.”

Alza le spalle. “Niente di importante.”

“Va bene, sono contento che non sia nulla di grave, ma forse ti sentiresti meglio se me ne parlassi.”

“Devo fare i compiti, pa’. Caso mai un’altra volta.”

“Come vuoi… Lo sappiamo tutti e due che non ci sarà mai quest’altra volta.”

“Già.”

Già.

 

Mentre esco dalla camera guardo Alice che ha riabbassato gli occhi sul quaderno e mi ricordo dello sforzo ho dovuto fare anni fa per smettere di considerarla una cosa mia. All’inizio, infatti, un figlio è un animaletto piccino che dipende dai genitori per ogni esigenza e man mano che cresce gli insegni quello che deve fare e lui, salvo le bizze, non può far altro che quello che gli dici. E fin lì è tutto tuo. Ma dopo qualche anno inizia a pensare, a scegliere, ad avere preferenze e tu cominci a capire che non è più una cosa, una semplice tua emanazione, ma sta diventando una persona. E devi iniziare a motivare i tuoi ordini, a convincerla, a prenderla per il verso giusto. E man mano che un figlio acquista personalità cresce sempre più la parte di lui che ti è estranea, che deriva dalla scuola, da quello che dicono i suoi amici, dalla televisione, da tutto il resto del mondo. E quel tuo figlio lo senti scivolare via a poco a poco e devi fare uno sforzo tremendo per lasciarlo andare, mentre vorresti trattenerlo con te e non dividerlo con nessuno ma così gli faresti solo male. Ed è un’operazione complicata far entrare nella vita un figlio; è come era una volta il varo di una nave, che scendeva in mare scorrendo su delle strutture in legno inclinate e bisognava un po’ lasciar andare le corde che legavano la barca ed un po’ trattenerle, per permetterle un ingresso in acqua tranquillo, senza che si rovesciasse o affondasse. Un mazzo tremendo, questa storia di dover scegliere di continuo quando guidare un figlio e quando lasciargli autonomia. Alla fine te lo ritrovi lì di fronte; non sarà mai un estraneo perché sarete legati per sempre ma una buona fetta di lui ormai ti è sconosciuta, vai a capire che gli passa per la testa adesso ad Alice.

 


 

Serena, la mia amante, potrebbe essere mia figlia. In realtà è la figlia del mio socio Aldo. Da quindici anni conduciamo insieme una agenzia di assicurazioni. Io mi ritengo un uomo con un forte senso dell’onore, non potrei mai tradire un amico andando con la sua donna. Il fatto è che quando si è presentata questa occasione con Serena sono stato preso alla sprovvista. Mi avevano sempre detto che non si va con la moglie di un amico ma delle figlie non se n’era mai parlato. Forse si dava per scontato. Di fatto, quando mi capitò tra le mani questa ventitreenne bionda e dai seni grossi, come piacciono a me, lì per lì pensai che non c’era niente di male. Poi credevo che sarebbe stata una cosa del tutto occasionale. Adesso, dopo otto mesi che questa storia va avanti e che non so più come uscirne, mi rendo conto che con la figlia è molto più grave. Non so come faccio a sostenere ogni giorno lo sguardo del mio socio, in ditta. Certo, una cosa che ha influito parecchio è il fatto che ho avuto sempre una sorta di complesso di inferiorità nei confronti di Aldo. Lui ha cinquantadue anni, sei più di me, ed ha sempre avuto un grande successo con le donne. Tuttora continua a scopare in giro spesso e volentieri. E se n’è sempre vantato di questa cosa. “Tu che non batti chiodo”, mi dice, “guarda come si fa.” Mi usa anche come copertura, tante volte. “Stasera abbiamo una cena di lavoro insieme,” e mi fa l’occhiolino. Spesso mi lascio convincere e, dopo aver detto a mia moglie che ceno con Aldo, me ne vado a mangiare una pizza da solo e dopo al cinema o, il più delle volte, in ditta a lavorare. Queste sere sono sempre nel panico: temo che la moglie di Aldo mi chiami al cellulare e sono sicuro che non sarei per niente convincente a farfugliargli quelle due o tre scuse standard che ho concordato col mio socio, “in questo momento è in bagno, ti faccio richiamare,” oppure “scusa, sai, non sento bene, forse sta per cadere la linea” e riattaccare, o altre menate simili.

Diciamo che forse è stato per vendicarmi di tutte quelle serate passate in ufficio davanti al computer mentre Aldo scopava che ad un certo punto ho iniziato a farmi sua figlia.

 


  

Quella domanda di Alice continua a ronzarmi nella testa. Stamani ho incrociato il mio socio nel corridoio dell’ufficio e gli ho chiesto:

“Perché viviamo?”

“Per trombare,” ha risposto senza esitazioni. Poi si è infilato nella sua stanza ridendo.

Beh, può essere una buona risposta anche quella, se la si intende in senso lato. Viviamo per soddisfare i nostri bisogni primari: mangiare, dormire, copulare. Tutto il resto, forse voleva dirmi Aldo, è pura sovrastruttura inutile e superflua. Può essere. Se così fosse, però, avrebbe ragione Alice: cosa ci distinguerebbe dai maiali?

Forse, però, la risposta del mio socio può essere interpretata in modo diverso. Viviamo per soddisfare l’istinto riproduttivo. E’ la spinta innata della conservazione della razza, il bisogno di perpetuare la specie. La natura è ricorsa a un trucco sporco per spingerci alla riproduzione: ci ha reso ipersensibile il pisello. E quando il sangue affluisce lì, se ne fugge dal cervello. Noi ci illudiamo di riuscire a prenderla in giro, la natura. Ci siamo inventati gli anticoncezionali, il coito interrotto, la sodomia e i lavori di mano e di bocca, per avere il piacere senza pagarne il prezzo, ma alla fine, non si sa come, ci viene sempre voglia di avere un figlio e lo facciamo. Alla lunga vince sempre la natura.

Ma se viviamo per riprodurci, allora cosa ci distingue dai maiali di Alice?

 


  

Stamani noto che mia figlia è già vestita di mattina presto. Ieri sera è rientrata alle dieci e si è subito infilata in camera sua. Vedo che sta uscendo.

“Non fai colazione?” le chiedo.

“Devo essere a scuola prima, oggi; sono già in ritardo.”

“Alice, vieni qua, subito,” dico, d’istinto.

Lei si avvicina, con la testa bassa. Ha gli occhiali da sole. Fuori piove.

“Che è sta’ roba? Fatti un po’ vedere.” Le levo gli occhiali. Ha un occhio pesto. A guardarla bene anche la guancia è gonfia. Sento il cuore che inizia a battermi forte.

“Che ti è successo, piccola?”

Lei scuote la testa. “Non è nulla, pa’, non è nulla.”

“Con chi sei uscita ieri sera? Con quel Giulio, vero?”

“No, pa’. No, lui non c’entra. E’ stato un incidente. Ho battuto.”

“Ma che dici? Mi prendi per scemo?”

“Non è nulla, pa’…” Si riprende gli occhiali e scappa via. Pochi secondi ed è già per le scale.

Io mi siedo sul divano. La mia piccola, penso. Non so pensare altro. Anzi, no: “io quello lo ammazzo”, inizio a mormorare, “io quello lo ammazzo.”

 

Sono ancora carico di rabbia quando raggiungo Serena, nel pomeriggio. Aldo ha una casetta appena fuori città, dove inizia la campagna. Sua figlia gli dice che ci va a studiare, perché lì si concentra meglio. Una volta la settimana passiamo due o tre orette a far sesso, nella casetta, io e lei. La sera è il padre che ci porta le sue ganze. Insomma, un posticino allegro. Non ho avuto modo di parlare con Alice perché lei non è tornata a casa a pranzo; ha telefonato informandoci che è andata da un’amica e che studierà lì oggi pomeriggio. “Ha detto che torna stasera a cena,” mi ha comunicato mia moglie, alla quale ho raccontato dell’occhio nero. “L’ha fatto perché non vuole affrontarci”, ha concluso poi Elena, sempre come se fosse tutto colpa mia. Dunque sono ancora teso, quando raggiungo Serena. Mi sa che la prenderò un po’ rudemente quando faremo l’amore. A lei non dispiace troppo.

 

Invece non facciamo l’amore. E’ mezza in lacrime. Mi racconta che suo padre a scoperto che il figlio minore, Cristiano, si droga. Cristiano ha diciassette anni, è anche amico di Alice. Pareva un tipo a posto.

“Ma cosa prende?” chiedo.

Pare si sia fumato il cervello quasi del tutto con gli spinelli, ma questo sarebbe niente, ora ha iniziato di brutto con le paste.

“Le paste?”

“Pasticche, pillole, extasy, quella roba lì.”

“Ma è grave?”

“Una ogni tanto non è niente, le prendo anch’io le volte che vado a ballare, ma lui inizia a calarle troppo spesso. Gliel’ho detto un casino di volte.”

“Come? Le prendi anche tu?”

“Non mi rompere le palle, lo fanno tutti… il problema è mio fratello.”
”Tutti chi?”

“Tutti, tutti!” e riprende a piangere.

Io rimango zitto.

“Mio padre s’è incazzato. Erano anni che non lo picchiava a Cristiano. Ma cosa pensa di risolvere, così?”

“Forse non sapeva cos’altro fare.” Povero Aldo. “E ora?”

“Ora non so. Cristiano è uscito di casa ed ha staccato il telefonino. Non so dov’è.”

“E tuo padre?”

“E’ andato in ufficio, dove cazzo vuoi che vada!”

 

E ha ripreso a piangere, Serena. Io la stringo a me e penso ad Aldo, a come si deve sentire, penso a Cristiano, che non saprei proprio che dirgli,  penso a Alice, che ogni tanto esce con Cristiano ed i suoi amici e se le hanno dato qualcosa io li stronco tutti. Penso a tutte queste cose mentre abbraccio Serena che singhiozza e sento che sto avendo un’erezione. Non posso farci nulla, a me le donne in lacrime fanno questo effetto. So che devono essere consolate e quello stronzo del mio pene non sa pensare ad altro che a dar loro sollievo in quel modo.

Evito comunque di sbottonarmi e continuo a carezzare i capelli di Serena.

“Ne devi parlare con mio padre, di Cristiano” mi dice, “gli devi spiegare…”

Gli devo spiegare cosa? Mi chiedo. Che posso dirgli?

 


 

Preferisco non tornare in ditta. Vado direttamente a casa. Alice ancora non è tornata. Arriva proprio alle otto in punto, ha fatto il calcolo che ormai inizieremo a mangiare. Poco importa: vuol dire che ceneremo più tardi. La facciamo sedere in salotto. Poi inizia mia moglie:

“Alice, bambina mia, ci dici cosa ti è successo; siamo tanto preoccupati.”

Ciò vuol dire che Elena si è presa il ruolo del poliziotto buono e a me tocca quello del poliziotto cattivo.

Mia figlia ha avuto un giorno intero per prepararsi il discorsetto.

“Non è niente. Giulio non c’entra. Ho litigato con una, ma ora è tutto a posto.”

Una ti può ridurre così? E chi è?” chiede Elena.

“Ha diciotto anni e gioca a pallavolo. E’ grossa, ma’. Voi non la conoscete.”

“Ma come si chiama?” insiste mia moglie.

“Non importa, tanto non la conoscete.”

“Si potrà sapere come si chiama!” insiste Elena, ormai completamente depistata da Alice. Intervengo io, brusco come devono esserlo i poliziotti cattivi.

Perché vi siete picchiate? E non mi raccontare stronzate.”

“Veramente è lei che ha picchiato me.”

Poi silenzio. Restiamo qualche secondo in attesa. Alice china la testa. “Allora?” faccio.

“Niente di importante, pa’. Cose tra ragazze.”

“Di solito sono i ragazzi che si menano,” osservo.

Insistiamo per sapere. Alice non vuole dire di più. Mia moglie si accanisce, io ad un certo punto mi acquieto; non mi torna.

Alla fine Alice tira fuori qualche lacrima. Poi confessa.

“Questa tizia mi ha voluto incontrare ieri sera perché pensava che io stessi dietro al suo ragazzo. Prima abbiamo litigato e poi me le ha date.”

“Ma era vera questa cosa?” chiede Elena.

Alice si prende la testa tra le mani. Poi mormora: “sì, era vero.”

Perfetto. La mia piccola si è caricata di una bella colpa e si tiene il livido. Alla tizia che gioca a pallacanestro non si può dire niente, aveva ragione. Mia moglie, tutto sommato, è sollevata. Abbraccia la figlia e la stringe a sé, dopoditutto nella vita, prima o poi, un po’ mignotte capita di esserlo a tutte. Certo che Alice pare avere iniziato abbastanza presto, mi viene da pensare.

Ceniamo. Le mie due donne sono quasi allegre. Io non dico una parola. Dopo, Alice se ne va in camera sua. Mi affaccio alla porta, le faccio segno di avvicinarsi. Lei mi sorride.

“Quel livido lì,” le dico, “te l’ha fatto Giulio, vero?”

Lei impallidisce, poi abbassa la testa e farfuglia “No, pa’. Com’è che non mi credi? Io non vi ho mai detto balle.”

Mi è bastato guardarla in faccia per sapere. Chiudo la porta. Io quello lo ammazzo.

 


 

Il giorno dopo Serena mi telefona sul cellulare. Sono in ufficio. Chiudo per bene la porta, poi le rispondo.

“Ho parlato con Cristiano,” mi dice, “ieri sera è tornato a casa.”

“E come sta?”

“Di merda. Per fortuna ora cerchiamo tutti di aiutarlo. Anche mio padre ci ha parlato a lungo ieri sera, con molta più calma… Ringrazia anche Alice, per quello che sta facendo.”

“Cosa c’entra Alice?”

“Beh, ieri è stata tutto il giorno con Cristiano, per cercare di fargli coraggio e di spingerlo a uscirne. Non vi ha detto niente?”

“Forse crede che noi non se ne sappia nulla di Cristiano. E, in effetti, ufficialmente a me Aldo non me l’ha raccontata questa cosa della droga. Anzi, è bene che con lui continui a far finta di non sapere. Ed anche con Alice. Io e te, in teoria, non dovremmo sentirci.”

”Sì, certo…”

”Ti volevo chiedere una cosa, Serena… sai per caso se Alice e Cristiano si sono visti anche ieri l’altro sera?” Era la notte del pugno.

“Non saprei, perché?”

“Così. Mi pareva…” mi mordo un po’ le labbra. Cosa c’entra mia figlia in questa storia?

 


 

Sono molto inquieto. Quando arrivo a casa per pranzo chiedo a mia moglie, mentre lei sta apparecchiando:

“Cosa ci stiamo a fare al mondo? Perché viviamo?”

Elena mi guarda come se fossi pazzo. E’ una reazione comune quando faccio questa domanda, e la trovo sempre un po’ strana. In realtà, dovrebbe essere da pazzi vivere senza chiedersi il perché, e non il contrario.

“Perché viviamo?” ripeto.

“Per amare.”

Bella risposta. Non so se gliel’hanno insegnata a catechismo o se l’ha sentita in qualche telenovela. E poi che vuol dire? Amare chi? E amare in che senso?

“Amare chi?”

“Gli altri.”

“E perché?”

“Caro, mi pare che questa storia di Alice ti abbia un po’ stressato. Ora è tutto chiarito. Mettiti tranquillo.”

Vado in salotto a leggere il giornale, mentre lei finisce di apparecchiare. Ho un altro dubbio: ma i maiali si amano l’un l’altro?

 


 

“Vorrei parlare con Giulio, quando passa di qui?”

Alice mi guarda, un po’ con sgomento, un po’ come per dire che palle.

“Non gli vorrai parlare del pugno?”

“Certo che gli voglio parlare del pugno,” rispondo, “gli potrò dire che non gradisco che mi si picchi la figlia, o no? Gli potrò dire che gli spacco la faccia, o no?”

“Pa’, ti prego. Non è stato lui. Non sa del pugno, ho trovato delle scuse per non vederlo fino a quando il livido non si sarà riassorbito. Se gli dici che una mi ha picchiato perché cercavo di andare col suo ragazzo, mi lascerà.”

Questa figlia di troia di Alice, con tutto il rispetto per mia moglie, si è inventata una scusa perfetta. Non la posso attaccare da nessuna parte. Devo abbozzare, salvando la faccia.

“Ma tu vuoi stare con Giulio anche se ti piace un altro? Ti pare giusto?”

“Non lo so, pa’. Non so cosa fare. Forse però quell’altro non è poi che mi piaccia più di tanto.”

Zacchete! Ed ecco che ora anche l’altro sparisce di scena.

“Se scopro che stai coprendo quel Giulio, mi incazzo davvero. Se lui riprova ad alzarti le mani addosso, io lo ammazzo.”

“Stai tranquillo,” risponde Alice, con gli occhi tristi, “non ci saranno più botte.”

 


 

 In realtà non c’è più Giulio. Sono dieci giorni, ormai, che non si vede; prima era per casa ogni due minuti. Mando mia moglie a chiedere. Mi conferma:

“Si sono lasciati. Povera Alice.”

Per fortuna mia figlia ha abbastanza sale in zucca da mollare uno che la picchia.

“Come è andata?” faccio.

Elena alza le spalle. “Non mi ha dato troppi particolari. Dice che si sono resi conto che non funzionava più e che hanno deciso di finirla. Poverina, credo che stia soffrendo parecchio.”

Mi pare che tutto stia andando a rotoli. Anche Aldo in ditta sta facendo una serie infinita di stronzate. Oggi ha litigato con un altro cliente.

“Non gli stava bene la nostra assicurazione in caso morte,” mi ha raccontato, “gli ho detto di andare a cercarsene una migliore e di crepare nel frattempo.”

“Non puoi fare così, Aldo! Veniva qui da più di dieci anni.”

“Certi clienti è meglio perderli che trovarli.”

Sono d’accordo, ma dopo che li hai persi tutti?

“E’ un periodo che sei un po’ nervoso, Aldo. C’è qualcosa che non va?”

Mi guarda smarrito.

“Qualche casino c’è,” fa, dopo averci pensato su alcuni istanti, “ma niente di troppo grave, lo risolveremo presto.”

“Ma cosa?”

“I figli,” scuote la testa, “i figli sono pensieri; più crescono e peggio è, anche tu ne sai qualcosa, no?”

Sì, anche io ne so qualcosa. O forse non ne so ancora niente?

 


 

Devo scoprire se questa storia di Cristiano c’entra qualcosa coi lividi che mia figlia aveva in faccia. Forse davvero non è stato quel Giulio. Vado alla camera di Alice e busso sulla porta. Non risponde. Allora provo ad aprire. E’ distesa sul letto che ascolta musica in cuffia. Muove a tempo la testa e il bacino. Indossa solo una maglietta e delle mutandine. Ormai è bene che si vesta un po’ di più anche in casa, gliel’ho detto mille volte. Quando mi vede si mette a sedere sul letto, con le gambe incrociate.

“Che c’è, pa’?”

“Senti, Alice,” giro per la stanza, non so dove mettermi, alla fine preferisco restare in piedi, “ho parlato con Aldo, mi ha accennato che ha dei problemi col figlio. A te Cristiano ha detto nulla?”

Si morde le labbra. Poi mi getta uno sguardo deciso.

“Ha iniziato a prendere un po’ troppa roba. Ha degli amici stronzi, gliel’ho ripetuto un mucchio di volte. Lo sai com’è Cristiano, è sempre stato troppo… arrendevole, insicuro, deve sempre appoggiarsi a qualcun altro.”

Non ho la minima idea di come sia Cristiano, non ho mai pensato che me ne potesse fregare qualcosa.

“E ora si appoggia a te,” faccio.

Annuisce. “Sto cercando di aiutarlo; ne ha molto bisogno.”

“E i suoi amici come hanno preso il fatto che tu ti sia messa di mezzo?”

Scuote la testa. “Sono solo degli stronzi. In particolare quello che gli vende le paste.”

Che cosa ci fa la mia bambina in una storia come questa? E’ ancora così piccola.

“E’ stato lui, quello che vende, a farti l’occhio nero?” Aspetto la sua risposta senza respirare. Sento il mio cuore che rimbomba.

Alice mi guarda. Non lo capisco il suo sguardo, questa volta. E’ pieno d’amore ma mi osserva come se fossimo separati da milioni di chilometri, anni luce.

“E’ stata la pallavolista, pa’; te l’ho già detto mille volte… Non hai proprio fiducia in me.”

Darei il mio cuore per te, piccolina. Per non farti soffrire, amore mio, per non farti soffrire.

 


 

Sono dentro a Serena. Alterno in lei presenza e quasi assenza e questo esserci e poi stare per lasciarla e di nuovo ritornare le fa irrorare di sangue guance, labbra e organi sessuali. Questa mia sensazione di potenza, secondo suo padre, potrebbe essere la risposta alla domanda di Alice: perché viviamo?

Ha un senso tutto ciò? Mi chiedo, e bacio un capezzolo di Serena. Lei mi artiglia le mani sulla schiena, mi vuole. Siamo poi davvero diversi dai maiali? E perché sono così ossessionato da questi maiali? Che mi hanno fatto di male?

“Cazzo!” fa Serena.

“Sìì, te ne do quanto vuoi!”

“Cazzo! E’ arrivato qualcuno!”

Si blocca d’improvviso, terrorizzata. Intramezzato dai residui cigolii del letto sento il rumore di una macchina nel cortile davanti alla casa. Serena in un istante, che non capisco nemmeno come abbia fatto, scompare da sotto di me e si affaccia alla finestra, tutta scompigliata, con le tette in bella vista. La vedo portarsi le mani tra i capelli e mormorare porca puttana, poi si accuccia lentamente sui talloni, sembra l’abbandonino le forze, scivola giù fino al pavimento, togliendosi dal riquadro della finestra. Mi guarda, sempre con le mani nei capelli.

“Porca puttana. E’ mio padre.”

Restiamo immobili per qualche istante.

Poi sentiamo il rumore della macchina che riparte e si allontana.

“Ma ti ha visto?”, chiedo.

“Certo che mi ha visto. Ci siamo proprio scrutati negli occhi… Mi guardava come se l’avessi ucciso.”

Trattiene le lacrime a stento. Sento il vuoto che si espande dentro di me. Senza speranza chiedo:

“E la mia macchina l’ha vista?”

“Gli ha tirato un calcio nella portiera, alla tua macchina.”

 


 

E’ la fine, penso mentre torno a casa. Altro che perché viviamo?, ho vissuto per buttare nel cesso quindici anni di attività con un amico solo per scoparmi per qualche mese una ragazzina. Non sono state brutte scopate, a dire il vero, e Serena è proprio una bella figliola, ma quindici anni di lavoro e di amicizia! E se poi Aldo lo va a dire a mia moglie e ad Alice? Spero non lo faccia, porco Giuda! Calma! Non lo farà. So di tante sue storie che non ha niente da guadagnarci da uno sputtanamento generale. La risolveremo tra noi, da uomini. O meglio, tra un uomo ed un verme. Quando ci sarà da contrattare lo scioglimento della società sarò in una posizione contrattuale debolissima; quanto vale in termini economici essermi fatto per otto mesi sua figlia? A parte i soldi, non è che Aldo mi spaccherà la faccia? E’ più robusto di me. Poi si arrabbia facile, ha picchiato anche il figlio. Non so se domani avrò il coraggio di andare in ufficio. Devo trovare la forza di fare come tutti i giorni, come se non sia successo nulla. Poi vedrò come lui affronterà l’argomento. E’ importante sapere cosa dirà a Serena stasera. Importantissimo. Fondamentale.

Aspetto per venti minuti in macchina sotto casa, dopo aver parcheggiato. Sento un po’ di musica. Quando penso di essermi calmato salgo, ormai è ora di cena. Alice mi vede entrare.

“Che hai fatto, pa’? Cosa ti è successo?”

Non deve sapere niente, la mia piccola, non deve mai sapere niente di questa storia, ad ogni costo.

 


 

Arrivo in ufficio il mattino dopo. Serena non mi ha chiamato per dirmi come le è andato il ritorno a casa. Il suo cellulare è ancora staccato. Apro la porta, raggiungo la mia stanza e mi ci rifugio. Faccio venire la segretaria e lei mi dice che Aldo non è ancora arrivato. Riprovo a chiamare Serena ma c’è sempre la segreteria telefonica.  Cerco di studiare qualche pratica ma è come se i fogli mi ballassero davanti. Mi viene una specie di nausea. Sento la porta d’ingresso che si apre ed il passo pesante di Aldo che si avvicina nel corridoio. Ma non si ferma davanti alla mia stanza, prosegue fino alla sua. Aspetto. Lo sento uscire dopo dieci minuti e andare dalla segretaria. Alla fine non resisto più e me ne esco nel corridoio. Lo incrocio, mi saluta con un cenno della testa, mi fa, ciao, come va? e quindi inizia a parlarmi di alcuni clienti ai quali dovrei telefonare perché aspettano dei preventivi. Io annuisco ma non riesco a dire una parola. Lo ascolto incredulo mentre poi mi spiega che sarebbe bene cambiare la fotocopiatrice, che è vecchia e ci costa un mucchio per la manutenzione, i nuovi modelli hanno un costo per ogni copia molto inferiore. Gli do ragione. “Va, bene, allora mi informo meglio,” dice e se ne va di nuovo dalla segretaria, lasciandomi lì, impalato nel corridoio. Alla fine anch’io torno nella mia stanza e chiamo di nuovo Serena. Stavolta risponde:

“A me non ha detto niente,” mi fa, “come se non fosse successo nulla.”

“Anche con me lo stesso,” rispondo.

“Bene, allora.”

“Bene? Ma che dici? E ora che facciamo?”

“Non avevi paura che ti facesse a pezzi? Dunque meglio così.”

“Ma adesso che gli dico?”

“Niente, gli devi dire,” inizia a spazientirsi, “stai zitto e fai finta di nulla anche tu. Magari questa settimana non ci vediamo.”

“Questa settimana?”

“Sì, per una settimana, forse due; vediamo un po’ come butta.”

“Ma io con che coraggio posso guardarlo in faccia?”

“Stiamo insieme da otto mesi e non mi pare che tu sinora abbia avuto problemi a guardarlo in faccia, mio padre. Continua come facevi prima.”

“Ma prima era diverso; non …”

“Sai che? Eri un gran pezzo di merda anche prima, se proprio vuoi saperlo,” e riattacca.

Io, a dire il vero, avrei preferito non saperlo.

 


 

E’ passata una settimana da quando il mio socio ci ha scoperto. E’ stata una delle settimane peggiori della mia vita.

Ora va meglio; a furia di pensarci, adesso sono quasi arrabbiato con Aldo. E’ veramente un uomo senza palle! Come può sopportare questa situazione? Io al posto suo avrei fatto di me carne da porco. E invece continua a parlarmi come se niente fosse, a fare progetti di espansione della ditta, a offrirmi il caffè. Non pensavo che per non rovinare la nostra società accettasse di passare sopra a questa cosa. Continuo a chiedermi come, per soldi, un uomo possa accettare di umiliare in questo modo il proprio onore e la propria dignità.

Serena, invece, è tutta contenta, galvanizzata. “Si vede che gli sta bene così,” mi dice, “riprendiamo a vederci.”

“Aspettiamo un po’, piccola, non sono ancora pronto.”

“Hai paura che non ti si rizzi più, dopo quello spavento? Stai tranquillo che ci penso io.”

“Non è quello,” rispondo, “non è quello.”

 

Alla fine Serena mi convince. Torno nella casetta di campagna, torno in quella stanza, torno dentro di lei. Aveva ragione, tutto va per il meglio; in effetti ci provo anche più gusto di prima.

 


 

In tutto questo casino per un po’ non ho pensato all’occhio pesto di mia figlia. Serena mi ha raccontato che ora Cristiano va un po’ meglio. Lo hanno convinto ad andare a parlare con dei tizi che gestiscono una comunità, con un medico, con uno psicologo, insomma, con un mucchio di gente e lui ha promesso che vuole abbozzarla. Alice gli è stata parecchio dietro e Serena dice che lei è davvero un angelo. Non ne dubito, anche se quella storia della pallavolista non riesco a buttarla giù. E’ per questo che quando incontro in piazza Giulio non posso fare a meno di fermarlo e di parlargli. Io non posso fare a meno di fare un mucchio di stronzate, devo ammettere.

“Ciao, Giulio,”

Lui mi guarda per nulla intimorito, con un’aria sfottente. “Buongiorno,” risponde.

“Come va?”

“Ora meglio. Da quando non sto più con quella troia di sua figlia, molto meglio.”

Lo guardo stupito, incapace di dargli una sberla, come si meriterebbe. Allora non è vero che si sono lasciati di comune accordo come mi ha raccontato Alice.

“Sei impazzito,” gli dico.

Troia è ancora poco, per quella zoccola.”

“Sei stato tu, brutto stronzo, a farle un occhio nero!” I miei pugni sono serrati, faccio un passo verso di lui.

Giulio abbassa lo sguardo. “Di quello mi dispiace,” mormora, “a un certo punto non ci ho visto più… Avevo capito che c’era un altro, ma quando è venuto fuori che lui era un vecchio mi sono sentito così…” Tace. Ora ha rialzato la testa ma è come se non mi vedesse. “Mi dispiace, non avrei dovuto.”

“Un vecchio?” Sento il mio cuore rimbalzarmi nel petto. “Un vecchio?”

“Sì. Si fosse fatta scopare da uno della mia età l’avrei presa meglio, sarebbe stato naturale ma…”

Lo afferro per il bavero del giubbotto. Lo scuoto. “M’importa una sega di come l’hai presa! Chi è questo figlio di puttana?” Mi pare di vederci male, forse sono lacrime. “Chi ha toccato Alice? Dimmelo!”

“Fanculo.” Mi allontana con una spinta. Per poco non cado a terra. “Fanculo a te ed a tua figlia.”

Corre via; ad un certo punto urla: “siete una famiglia di stronzi.”  

La gente che mi guarda sembra dargli ragione. Mi metto una mano tra i capelli, poi trovo la forza di muovermi. Me ne vado in una direzione a caso. L’importante è camminare. Non importa dove. Il più in fretta possibile. Un vecchio, ha detto, un vecchio.

 

Cosa vuol dire un vecchio per un ragazzo di diciott’anni? Sono stato davvero un idiota a mettere le mani addosso a Giulio. Così l’ho fatto scappare e ora non so niente di questa storia. Quanti anni avrà quello stronzo? Trenta, cinquanta, sessanta? E chi è?

Sono le tre del pomeriggio ed Alice è andata da una sua amica a studiare, fino a stasera non torna a casa. O forse non è dalla sua amica, è un’altra balla che mi ha raccontato. La chiamo al cellulare.

“Ciao, pa’. Che c’è?”

Resto qualche istante in silenzio. Mica ho pensato a quello che le volevo dire.

“Pronto?” fa di nuovo lei.

“Ti devo vedere.”

“Torno a casa per le sette.”

“Ti devo vedere subito.”

“Cosa è successo?”

“Non fare tante storie. Ci vediamo a casa tra venti minuti.”

Riattacco. Poi inizio a camminare veloce, col telefono ancora in mano.

Non è passato neanche un minuto che mi chiama mia moglie.

“Mi ha telefonato Alice. Cosa succede?” chiede Elena.

Sono davvero un deficiente. Non riesco a pensare, sto solo facendo casino. Elena non deve sapere, perlomeno per ora. Prima devo capire. Adesso che le racconto?

“Niente, niente,” dico, “ne riparliamo stasera, con calma.”

“Ma perché vuoi vedere subito Alice?”

“Niente… Ho incontrato una sua professoressa che mi ha detto che deve studiare di più.”

“Ma è quello che sta facendo adesso. Tu la fai smettere di studiare per dirle che deve studiare? E quale professoressa hai incontrato?”

Fanculo; mi pare che quella di matematica si chiami Tassi.

“La Tassi,” dico.

“La Tassi? E chi è?”

“Quella di matematica.”

“Ah, la Tarli.”

“Tarli, Tassi; fanculo. M’importa nulla di come si chiama. Ha detto che Alice si deve impegnare di più.”

“Ma sei impazzito?”

“Sono un po’ nervoso. Ne riparliamo stasera.”

“Allora non importa che torni a casa subito; ora sono in palestra. Ma cerca di darti una calmata prima di parlare ad Alice.”

“Va bene.”

Riattacco.

Fanculo anche ad Elena.

 

Quando arrivo in casa Alice è già lì. Mi viene incontro nell’ingresso.

“Che hai, pa’? Sembri…”

“Ho parlato con Giulio.”

Non dice niente ed abbassa lo sguardo.

“Mi ha detto tutto,” provo a buttare là.

Il bluff non funziona. “Giulio è solo uno stronzo,” fa Alice, “cosa ti ha detto?”

“Mi ha spiegato perché ti ha lasciata, perché ti ha picchiata.”

Mia figlia si volta, vuole andarsene in camera ma la trattengo per un braccio. “Chi è ‘sto vecchio? Chi è ‘sta merda?” urlo. Lei sta per piangere ma per un istante colgo nei suoi occhi un lampo di sollievo; ha capito che non so chi sia quell’infame. “Chi è?” insisto.

Scuote la testa. “Ora è tutto finito,” mormora.

“Sono stufo delle tue balle, Alice. Non fai che raccontare stronzate. Chi è?”

Adesso singhiozza, continua a tacere ed a volersene andare. Mi accorgo che sto stringendo forte il suo braccio. “Non hai ancora sedici anni,” urlo, “è violenza carnale, questa; io lo mando in galera, lo rovino!”

Rialza la testa e mi guarda negli occhi. “Non c’è mai stata violenza,” riesce a dire, “non c’è mai stata… mi fai male, pa’.”

“Io ti spezzo la faccia,” dico, ma la lascio andare. Non posso più sopportare questo strazio. Lei corre via fino in camera sua. Quando dieci minuti dopo passo davanti alla sua porta provo ad ascoltare, per sentire se piange ancora. Ma ha messo la musica alta, che copre ogni altro suono.

Devo inventare una storia per mia moglie. Che almeno lei non sappia, che almeno lei non soffra.

 


 

Passo la notte a cercare di capire, di fare il punto sulla situazione. Ma non vedo vie d’uscita, non trovo soluzioni. Penso ad Alice, penso ad Elena, a Serena, ad Aldo ed a Cristiano. Penso agli appuntamenti che ho con dei clienti. Penso alle pasticche che prendono tutti, alla ditta ed alla mia segretaria. Penso alla Tarli, la professoressa di matematica. Una notte è lunga a passare. “Perché viviamo?” mi chiedo verso l’alba. Penso che se non sono in grado di rispondere a questa domanda di mia figlia forse non sono un buon padre. Piango, perché questa risposta non ce l’ho.

 

La mattina dopo arrivo in ufficio un po’ tardi. Non mi pare più molto importante come cosa, direi.

Alice stamani, in pratica, non l’ho neanche vista. E’ scivolata fuori di casa prestissimo, mi ha detto mia moglie. Non ho ancora la minima idea di cosa farle, ad Alice, di che provvedimenti prendere. Sono stato tentato più volte di parlare ad Elena, di dividere con lei questo peso, ma un istinto che non capisco mi ha sinora impedito di farlo. E’ meglio di no, è meglio aspettare, saperne prima di più su come stanno le cose. Forse voglio solo proteggerla, Elena, o più verosimilmente non trovo il coraggio di affrontare questa situazione. Cosa vuoi che ci sia da capire o da chiarire: è solo un vecchio che sta approfittando della mia bambina. E lei lo difende.

Anche se mi sforzo, non riesco a ricordare cosa ho fatto da quando mi sono svegliato a quando ho messo la chiave nella toppa della porta dell’ufficio. E’ stata solo una serie di movimenti automatici. Mi chiedo se tutto il mio giorno sarà così.

Incontro nel corridoio Aldo. Mi fa quel sorriso falso che esibisce da quando ha scoperto che vado a letto con sua figlia. O forse l’ha sempre avuto. Penso che è davvero un uomo di merda a non avermi spaccato la faccia solo per mantenere insieme questo ufficietto ridicolo; che uomini senza dignità come lui dovrebbero morire; che non capisco come per due soldi uno rinunci così al proprio onore. Non mi torna, e mi sembra impossibile.

E, infatti non è possibile, capisco. Ci deve essere sotto qualcos’altro. Ripenso a come mi ha sorriso stamani: oltre alla falsità usuale c’era oggi una nuova nota di sfuggevolezza ed imbarazzo. Ma come è possibile? Sono io che devo essere imbarazzato nei suoi confronti, e non il contrario. Sono io che gli scopo la figlia e non…

 

Irrompo nella stanza di Aldo. Sbatto la porta alle spalle. Il mio sangue è una tempesta che mi spazza le vene; sento che potrei morire da un istante all’altro. Gli punto un dito contro.

“Come hai potuto, figlio di puttana! Dopo quindici anni di lavoro fianco a fianco, dopo quindici anni di amicizia, come hai potuto farmi questo! Con Alice…”

Lui mi guarda smarrito. Si morde le labbra. Tanto mi basta; continuo: “tu mi hai tradito, mi hai pugnalato alle spalle. Con mia figlia; perché lo hai fatto? Perché?”

Sento che lo potrei uccidere e che tutti applaudirebbero. Il Pubblico Ministero mi stringerebbe la mano. E’ confortante sapere che almeno per una volta nella vita mi trovo ad avere ragione in senso assoluto. Il torto patito mi si torce dentro e mi avvelena. Guardo intorno nella stanza. Capisco che sto cercando qualcosa di solido o affilata.

Aldo si alza dalla poltrona. E’ più alto e più massiccio di me. Mi si avvicina. Non è contrito od imbarazzato. E’ arrabbiato. Non capisco.

Mi minaccia col pugno serrato. “Sei proprio uno stronzo e un ipocrita; tu che stai con Serena, come puoi dirmi queste cose? Dev’essere un bel pezzo che vi vedete nella casa di campagna. Sei davvero…”

Cosa c’entra questo? Come può paragonare le due cose? Urlo, faccio un passo verso di lui: “Serena ha ventidue anni, Alice non ne ha ancora diciassette, pezzo di merda! Alice è soltanto una bambina,” inizio a piangere, “una bambina,” non riesco a smettere, “una bambina…”

Perché mi sta succedendo questo? Mi chiedo. Sento che ho perso tutta la mia forza; è come se il mio impeto mi avesse abbandonato. Ora sono solo un mare di lacrime che scorrono.

“Anche Serena è soltanto la mia bambina,” dice Aldo, “è così giovane, è così indifesa.” Lo guardo e leggo nei suoi occhi la mia stessa pena. Ha ragione: Serena sarà sempre la sua bambina, anche tra vent’anni, anche tra trent’anni. La deve difendere da quelli come me; la deve difendere da quelli come lui.

Ora piangiamo entrambi. Ci specchiamo l’uno nell’altro.

“Smettiamola,” dico, “tronchiamo queste storie di merda. Non devono soffrire, non dobbiamo farne carne da macello nelle nostre battaglie. Sono solo delle bambine, saranno sempre le nostre bambine. Le dobbiamo salvare, le dobbiamo proteggere, sono l’unica cosa che conti, l’unica cosa che conti.”

Poi non ricordo, forse ci siamo abbracciati.

Siamo due uomini e siamo tutti gli uomini.

 

 


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