La breccia di Porta Pia: come reagì Firenze Capitale
“Il 20, prestissimo, io e Pesci raggiungemmo le prime linee del 2° reggimento bersaglieri e del 39° reggimento di fanteria, schierate poco distanti dalle mura. Il piano prevedeva che la città fosse attaccata da diverse parti, in modo da confondere e disperdere i difensori, ma l’assalto principale sarebbe stato lì, a Porta Pia. Il cielo iniziò a schiarirsi, era una mattinata bellissima, senza nuvole. Iniziarono i rintocchi delle campane che annunciavano le cinque e mezzo. Fu quello il segnale: udimmo il primo colpo di cannone e poi i successivi. Il Papa aveva minacciato di scomunicare chi avesse ordinato di fare fuoco su Roma. Dunque, Cadorna aveva disposto che l’ordine di cominciare il cannoneggiamento fosse impartito dal capitano Giacomo Segre, di religione ebraica.
Le artiglierie italiana e pontificie duellarono per qualche tempo, ma quasi tutte le batterie dei difensori vennero presto messe a tacere. Vedemmo i nostri martellare Porta Pia e un tratto di mura, in particolare, a circa cinquanta metri sulla destra rispetto a essa.
Dopo le otto, una breccia iniziò ad aprirsi. I cannoni concentrarono lì i loro colpi, per abbassarla fino a un livello che rendesse possibile l’assalto dei fanti.
Intanto, tutto intorno risuonavano scambi di fucileria tra i difensori e i nostri che si attestavano sempre più vicino alle mura. Dietro alla prima linea si formò un gruppo di uomini e donne: erano gli esuli romani, che attendevano con impazienza il momento in cui sarebbero potuti rientrare nella città dalla quale avevano dovuto fuggire, perseguitati. Al riguardo, scambiai due parole col tenente Augusto Valenziani del 40° fanteria, anch’egli romano. Non vedeva l’ora di essere di nuovo nella sua patria e riabbracciare la vecchia madre, dopo tanti anni. Non poté farlo, di lì a poco, nella carica, venne stroncato da una fucilata.
Sapemmo poi che alle 9,35 il generale Kanzler e il Comitato di difesa, seguendo le disposizioni di Pio IX, avevano ordinato di inalberare la bandiera bianca e iniziare le trattative per la resa. Il fuoco, in effetti, rallentò e cessò per qualche momento, verso le dieci. Ma poi riprese, mentre i bersaglieri e i fanti assalivano la breccia. L’esercito italiano, per la prima volta, dovette affrontare quel tiro rapido dei fucili moderni che già io e i miei compagni avevamo assaggiato a Mentana. Ci furono altre perdite ma, alla fine, entrammo a Roma. Morirono, quel giorno, 32 dei nostri e 15 difensori; noi lamentammo 143 feriti, i papalini 68. Quest’ultimo tributo di sangue si unì a quello di migliaia di patrioti e soldati caduti o mutilati per l’unità d’Italia.
Quella mattina, a Firenze, tutti attendevano con ansia la fatidica notizia che giunse poco dopo mezzogiorno quando un nugolo di strilloni si sparse per il centro con un supplemento straordinario della Gazzetta del popolo di Firenze che riportava il comunicato ufficiale: l’esercito era entrato in Roma. Subito le strade si riempirono di gente, tutti smisero di lavorare, apparvero bandiere in ogni dove, con manifestazioni spontanee che percorrevano le vie del centro, ove si faceva fatica a muoversi. Un gruppo di giovani andò a prendere a casa il campanaio del Duomo e lo sollevò, come in trionfo, fino al portone del campanile di Giotto. L’uomo fu costretto ad aprire e i ragazzi iniziarono a suonare le campane a distesa. Uno di loro salì fino in cima al monumento per appendervi una bandiera tricolore. Molte campane risposero, alcune azionate spontaneamente da religiosi di più larghe vedute, altre dal popolo, dopo brevi tafferugli con i sagrestani più reazionari. Le finestre del palazzo dell’Arcivescovado vennero chiuse in segno di strettissimo lutto. Un corteo passò da piazza Frescobaldi e lì si arrestò, protestando perché dalle finestre di quello che era l’antico convento dei frati Barbetti, ora sede del Ministero della Marina, non sventolava alcun tricolore. La folla iniziò a protestare e iniziò a lanciar monetine contro le finestre, urlando: “Fuori la bandiera”. Qualcuno chiese: “Ve la siete impegnata al Monte di Pietà?” Infine, un giovane si arrampicò sulla facciata e, tra gli applausi, legò un tricolore tra le stecche di una persiana.
Dal ponte Santa Trinita transitò il drappello di militari che andava a dare il cambio al corpo di guardia di Palazzo Pitti. Alcune migliaia di persone, lo seguirono per via Maggio, scortate da bande che suonavano. La folla confluì in piazza Pitti, dove iniziò ad acclamare il re. Infine, Vittorio Emanuele, vestito, come sempre, di nero si affacciò da un terrazzino del primo piano e salutò il popolo, agitando il cappello. I festeggiamenti continuarono fino a tarda notte, con la città illuminata da mille fiaccole. Firenze, tra lo stupore dei piemontesi, in nome dell’idea dell’Unità, rinunciava felice a essere la capitale del Regno.”
Il brano che precede è tratto dal mio SABATINO A ROMA, FINALMENTE, racconto facente parte di “Accadeva in Firenze Capitale. Racconti storici dal 1865 al 1871“. Il volume, che ho avuto il piacere di curare insieme a Cristina Gatti, comprende 14 racconti e un saggio sul contributo dato dai cartografi dell’Istituto Geografico Militare alla realizzazione dell’unità, anche cartografica, dell’Italia, corredato da rare immagini e tavole. Il libro, promosso dal Gruppo Scrittori Firenze, è stato pubblicato da Carmignani Editrice.
SABATINO A ROMA, FINALMENTE vede Sabatino Arturi, mio protagonista seriale di racconti ambientati al tempo di Firenze capitale, seguire come giornalista nel 1870 le truppe del generale Cadorna dirette alla conquista di Roma. Ho voluto così rendere omaggio a Ugo Pesci, all’epoca redattore del Fanfulla, che visse quei momenti e scrisse il gradevolissimo “Come siamo entrati in Roma. Ricordi di Ugo Pesci” con prefazione di Giosuè Carducci, Milano, Fratelli Treves Editori, 1911.
Foto di pic: Ludovico Tuminelloscan: Carlomorino – Sconosciuta, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=404648
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